Terè e Giuditta avevano abitato una di fronte
all’altra per quasi quarant’anni. La prima era già lì quando Giuditta si sposò
con Mario e andò a vivere in via Cavour, nella casa che era della zia zitella
del marito, nel frattempo passata a miglior vita. Terè all’epoca era vedova di
fresco, ancora giovane e considerabile una bella donna. Probabilmente fu per
quello che Giuditta la prese subito in antipatia: bella, vedova e per niente
timida. Mario era uomo di sangue e Giuditta lo sapeva. Così cominciò a crearsi
delle storie in testa, tra suo marito e la dirimpettaia, che nella realtà
probabilmente non erano mai accadute ma che venivano alimentate nella sua
fantasia da qualche battutina maliziosa di Terè e dagli ammiccamenti malcelati
di Mario. Fu così che cominciò una faida di piccoli dispetti che continuò per
decenni e non cessò nemmeno quando Mario morì di infarto che era appena
quarantenne.
Si parlavano, le due vicine. Si prestavano anche
le cose: il sale, una cipolla, un pacco di farina. Sembravano perfettamente in
regola con le regole del buon vicinato. Ma poi Giuditta buttava il sale nei
vasi di fiori di Terè e Terè tirava la terra alle lenzuola stese di Giuditta.
Terè insegnava al gatto a fare la pipì sul portone di Giuditta e Giuditta
spazzava la strada e ammonticchiava lo sporco davanti a quello di Terè. E così
via discorrendo conducevano una minuscola guerra di dispetti e di nervi che
l’osservatore attento poteva percepire nonostante i sorrisi e le gentilezze di
facciata tra le due. Non si arrivò mai a fatti più seri, solo piccole ripicche
e poco più. Giuditta pensò più volte di avvelenare il gatto di Terè ma mai ebbe
il coraggio di farlo, così come Terè sognava di dar fuoco alla casa di Giuditta
con Giuditta dentro ma era soltanto un suo gioco mentale.
E un gioco mentale faceva spesso, ultimamente, Giuditta
prima di dormire: immaginava ogni sera un modo nuovo di ammazzare la vicina.
Era solo un gioco, un balocco per il cervello, un sistema per prendere sonno.
Ma i piani che sera dopo sera organizzava con la testa appoggiata sul cuscino
erano dettagliati e precisi. E sempre molto crudeli. La faceva soffrire prima
di morire la povera Terè. La legava e torturava. La faceva cadere in buche
profonde. La chiudeva in una stanza e appiccava il fuoco. Aveva una gran
fantasia nello sceneggiare per suo uso e consumo l’omicidio della dirimpettaia.
E questo la rilassava parecchio. Faceva dei bei sonni dopo. Finchè non capitò
che, un mattino, scoprì che Terè era morta sul serio.
Terè era morta di morte naturale. Non l’aveva certo
ammazzata lei. Giuditta era abilissima nel fantasticare di omicidi ma non
sarebbe mai stata capace di organizzarne uno vero. Ciononostante fin da subito,
da quando si accorse del viavai in casa di Terè e chiese lumi ad un parente
della stessa mentre usciva dalla porta di casa, un nipote che la morta era
riuscita ad avvertire per telefono pochi istanti prima di tirare le cuoia,
cominciò a montarle dentro un cupo senso di colpa. Immotivato, si intende. Giuditta
non aveva torto un capello alla morta. Ma il fatto che per mesi aveva
fantasticato sulla sua morte ora la turbava non poco.
Non pianse, Giuditta, per la morte di Terè. Ma andò al
funerale e all’accompagno e assistette alla tumulazione finchè la bara non fu
ben murata nel fornetto. Ciò però non servì a placare l’angoscia che provava. E
quella notte non riuscì a dormire. Come chiudeva gli occhi vedeva il volto
della vicina, un volto scuro, arrabbiato. E per casa sentiva rumori ovattati di
ogni tipo.
La notte successiva non andò affatto meglio. Era inquieta
più che mai e sentiva cigolii, scalpiccii, e un fastidioso grattare contro non
sapeva bene che cosa. Il mattino dopo andò dal medico e gli chiese qualcosa per
dormire. Il medico non era affatto propenso a darle tranquillanti, ma le
prescrisse un blando calmante.
Giuditta lo prese prima di coricarsi e si addormentò dopo
pochi minuti, vuoi per via del farmaco, vuoi perché non dormiva da due notti,
vuoi perché anche l’effetto psicologico in questi casi conta. Ma si svegliò
verso le quattro. E sentii grattare. Sotto il letto. Sentì nettissimo il rumore
di unghie che grattavano il materasso. E ne sentì anche la pressione sotto la
schiena. Rimase gelata, tanto da non essere capace di muoversi né di fare un
fiato. Il rumore e la pressione cessarono dopo pochi minuti ma lei rimase
immobile e con gli occhi sbarrati fino alla mattina.
La luce del sole la tranquillizzò e la convinse che quello
era stato solo un sogno molto vivido, forse causato dallo stress e dall’effetto
del farmaco. Decise che la notte successiva avrebbe fatto a meno delle gocce
prescritte dal medico. Passò una giornata normale, fece spesa, pulì la casa, si
occupò dei fiori, ma sempre con un senso di terrore latente che non le dava
pace. La sera, quando si coricò, si ripropose che, se avesse di nuovo avvertito
qualcosa di strano sotto il letto, si sarebbe fatta coraggio, avrebbe acceso la
luce, sarebbe scesa dal letto e ci avrebbe guardato sotto.
Non dormì fino alle quattro, ma passò dalla veglia al
dormiveglia di continuo. Alle quattro in punto – le segnava la radiosveglia –
sentì grattare sotto il letto. Di primo acchito restò impietrita, ma si ricordò
dei suoi propositi e accese la luce. Il grattare cessò. Scese dal letto con
poca convinzione, si mise sulle ginocchia e guardò sotto il letto. Un’ombra
sgusciò via veloce dalla parte opposta ma Giuditta fece bene in tempo a vedere
cosa fosse: era il gatto di Terè. Come fosse entrato in casa non riusciva a
capirlo né capiva dove fosse fuggito. Quando si fu ripresa dallo spavento cercò
dappertutto ma della bestia non c’era traccia. La cosa la inquietò e
tranquillizzò allo stesso tempo: anche se la presenza del gatto era strana e
piuttosto spaventosa era pur sempre una spiegazione razionale a quello che
aveva sentito e, quantomeno, escludeva robe di fantasmi e simili.
La notte successiva andò a dormire un po’ più rilassata ma
con l’intento di acchiappare il gatto se si fosse ripresentato a disturbarle il
sonno. Fu così che alle quattro in punto fu svegliata dall’ormai consueto
grattare sotto il materasso. Non si scompose più di tanto e non accese la luce:
voleva beccare il gatto e magari farlo fuori. Scese dal letto piano piano, si
mise in ginocchio e si affacciò sotto il letto. Vide un’ombra, ma piuttosto
grossa, non sembrava un gatto. Senza perdere di vista la sagoma allungò
all’indietro un braccio per accendere la luce e, quando la lampadina illuminò
parzialmente lo spazio tra il letto e il pavimento, vide il ghigno divertito di
Terè che, contemporaneamente all’accensione della luce le gridò: “Cucù!”.
La trovarono dopo tre giorni, stesa accanto al letto. La
trovarono perché la nipote la cercava. La trovarono con gli occhi aperti e
un’espressione di terrore in volto. Ictus, dissero. La tumularono in un
fornetto di fronte a quello di Terè.
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