Montegranaro è
sempre stata una piccola città ma non s’è mai fatta mancare nulla, nemmeno il
servizio noleggio auto con conducente che, da noi, si chiamava semplicemente
Ernestì, sia il servizio che il conducente. Oggi non ce ne sarebbe più bisogno,
oggi abbiamo più macchine che patenti,
ma già vent’anni fa c’era un sacco di gente senza patente e senza
macchina e, dovendo spostarsi, l’unico mezzo era la corriera della Sam o Ernestì,
che costava di più ma ti portava davanti alla porta della tua destinazione.
Aveva un
Maggiolino celeste metallizzato che sembrava appena uscito dalla fabbrica,
tutto lucido, senza un graffio, con gli interni che profumavano di pelle e di
buono. Lui era un ometto piccolo e sorridente, dai modi a dir poco gentili, con
un’educazione di altri tempi. Era affabile ma mai invadente, sapeva
intrattenerti ma sapeva anche stare in silenzio e rispettare la tua solitudine
quando, spesso, fungeva da auto medica. E nel ricordo che sto trascrivendo
Ernestì fu la mia auto medica.
Facevo il primo
liceo scientifico e, un martedì di maggio, durante l’ora di ginnastica, si
giocava a pallacanestro nel campetto basso dei Salesiani, quello sotto
l’oratorio, a fianco del campo sportivo verde. Presi palla in difesa e, pur non
avendo la vocazione dell’ala (giocavo più da pivot), partii in contropiede.
Circa all’altezza della metà campo Enrico Cherchi venne ad intercettarmi, lo
schivai, presi un suo piede, decollai, ruzzolai fin sotto il canestro. Mi alzai
con un dolore bestiale al braccio destro.
Il buon Paolino De Luca, mio insegnante di educazione fisica, intuì che
non si trattava di una semplice contusione e mi mandò di corsa in infermeria.
Ora
bisognerebbe aprire una parentesi sulla figura dell’infermiere dei Salesiani di
Macerata. Era un laico che era stato per anni in missione, un po’ in Africa, un
po’ in Asia.
Piuttosto anziano si era ritirato a Macerata e ripagava il vitto e l’alloggio
svolgendo funzione di paramedico pur non avendone qualifiche e competenze. Era
un uomo molto alto e molto magro, anzi, era davvero secco. Aveva uno strano tic
alla bocca per il quale sembrava stesse sempre succhiando qualcosa come una
mentina mentre non aveva in bocca nulla se non la sua lingua. Le sue competenze
mediche sono facili da riassumere con un episodio per il quale, per un mio mal
di testa, mi spalmò la fronte con della Vegetallumina. Nel caso del mio braccio lo guardò,
sentenziò: “non è rotto” e mi aprì e chiuse il gomito ripetutamente facendomi
urlare dal dolore (e io difficilmente urlo, anzi, mi lamento per il dolore).
Alla fine della
quinta ora tornai a casa in corriera col braccio penzoloni che mi doleva da
morire. Appena rincasato mamma, sempre un paio di misure oltre l’essere
apprensiva, decise per il pronto soccorso che, all’epoca, a Montegranaro ancora
c’era. Il problema era che babbo era fuori per lavoro per qualche giorno e
mamma non ha mai avuto né patente né tantomeno la minima capacità alla guida di
qualsiasi mezzo semovente. Quindi… pronto intervento Ernestì.
Arrivò davanti
casa dopo dieci minuti con la sua Volkswagen, mi aprì lo sportello come fossi
un principino e mi fece accomodare dietro. Al pronto soccorso c’era una
dottoressa di cui non ricordo il nome, ma in portineria ci dissero che eravamo stati
fortunati perché era una brava. Mi guardò il braccio destro e sentenziò: “non è
rotto” e mi aprì e chiuse il gomito ripetutamente esattamente con il buon
infermiere salesiano. Ero sul punto di tirarle un sinistro quando smise. Poi
prese una garza e mi legò la mano contro il collo dicendo che, con un paio di
giorni di trazione di quel tipo sarei andato a posto. A posto uno zufolo,
faceva un male blu.
Uscimmo dal
pronto soccorso e mamma era perplessa e un po’ disorientata. Era la classica
situazione in cui avrebbe dato chissà cosa per avere il marito a fianco ma a
quel tempo non c’erano nemmeno i cellulari. Ci pensò Ernestì. “O Fra’, io lo
porterio a Fermo” disse pacatamente, come un padre amorevole.
E mi portò a
Fermo, in ortopedia, dove mi ingessarono per la frattura composta del gomito.
Trenta giorni di gesso e di ferri da maglia per grattarsi. Non salii più sul
maggiolino azzurro di Ernestì da allora, ma me ne resta stampato indelebilmente
in mente il ricordo, come il sospetto che il braccio in realtà me l’abbia rotto
l’infermiere dei Salesiani.
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