La musica è
sempre stata la mia passione. Ora, con l’età matura, forse un po’ meno. Certo
non è la mia ragion d’essere ma è certamente un ausilio basilare per vivere
meglio. Passo molto tempo in macchina e la mia autoradio è sempre accesa. Uso
la musica per rilassarmi, per caricarmi o solo per divertirmi. Suono la mia
chitarra per piacere e come anti stress.
Da ragazzo, invece,
la musica era una ragione di vita, specie durante l’adolescenza. Sono cresciuto
con l’orecchio attaccato alla radio. Mio nonno, da buon montegranarese doc,
faceva le scarpe, sotto casa, come si usava allora. Piccola bottega artigiana,
come tante nel cuore del centro storico, dislocata sui due piani del
seminterrato di quella che adesso è casa mia. Lì c’erano entrambi i miei nonni,
c’era Tonino che tagliava le tomaie, Ave che puliva le scarpe, Dino e Marì de
Cucchiero.
E c’era una
vecchia radio a valvole, di quelle di legno, grossa quasi come un televisore,
infilata dentro una nicchia scavata nel muro maestro. Lì sentivo i Beatles,
John Lennon, gli Stones, tutta la musica degli anni 60 e 70. E sentivo il
mitico Lelio Luttazzi e la sua Hit Parade (ricordate la sigla? Lelio Luttazzi
presenta: HIIIIIT PARADEEEEEEE, e partiva il carosello da circo).
La radio mi è
entrata nel sangue fin da piccolo, come veicolo per ascoltare musica ma anche
come mezzo di comunicazione, per me forse più importante della televisione
anche perché, all’epoca, lo era realmente. E forse lo è ancora.
Una sera di
fine estate del 1982 ero seduto su una panchina dietro le mura con Uliano e
Giovanni. Eravamo un gruppo strano, quasi invasati di rock, e la nostra
missione, convinti come eravamo che la dance music fosse il male assoluto, era
quella di evangelizzare il mondo al rock. Vidi passare Mauro che, all’epoca,
era una specie di art director della radio cittadina, Radio Veregra 1. Mi venne
un flash e senza nemmeno pensarci dissi agli altri due: ma perché non facciamo
un programma di musica heavy metal alla radio? Giovanni disse che ero matto.
Uliano naturalmente si alzò in piedi e disse: “Andiamo a chiedergli se ce lo fa
fare”. Ci andammo e lui ci disse che si poteva fare, ma prima dovevamo fare la
gavetta. Ci doveva provare e, se avesse ritenuto che fossimo stati idonei, ci
avrebbe fatto fare qualche mese di allenamento perché “non si può mica andare
in onda così, senza esperienza”. Mica micio micio.
La sera dopo
entrammo a Radio Veregra da via Enzo Bassi (sotto piazza). La radio era
collocata nel seminterrato dello stabile, parte del municipio, che ospitava in
piazza la sede della Democrazia Cristiana, ma si entrava dalla via di sotto.
C’era un corridoio stretto sul quale si aprivano due porte a sinistra e una di
fronte. La prima porta dava in una stanzetta, l’unica dotata di finestra, che
fungeva da salottino (ino ino, con una sola poltrona) e da ufficetto con una
scrivania di metallo. Ricordo che quella
sera alla scrivania era seduto Olivo “Patacchì” che imprecava al telefono non
so con chi. La porta di fronte dava allo studio di trasmissione e Mauro mise
subito in chiaro che, prima di entrare lì dentro, “troppe pagnotte dovevamo
magnà”.
Ci fece invece
entrare nella seconda porta a sinistra, che si apriva in una stanza senza
finestre piena di strumenti come piatti, piastre, amplificatori, revox, finali
di potenza, casse, un sacco di fili che pendevano da tutte le parti. Quello era
lo studio 2, usato per registrare le pubblicità e alcuni programmi che non
potevano andare in diretta e come magazzino. Mauro ci spiegò brevemente come
funzionava la strumentazione e il mixer, e io mi misi subito in console
dimostrando una certa propensione per l’uso del mixer e dei piatti. Uliano non
manifestò mai interesse per la regia per cui sembrò naturale che quella
toccasse a me. Giovanni se ne stava lì zitto, poco interessato e un po’
intimorito dai microfoni. Disse subito che lui non avrebbe parlato. Lo
promuovemmo ad assistente di studio. Passò il primo anno a Radio Veregra a
passarci i dischi da mettere dopo averli opportunamente puliti con lo straccio
antistatico. L’anno dopo si prese una trasmissione tutta sua.
Iniziammo a
provare e dimostrammo subito che la qualità non era poi male. Mauro decise di
farci saltare a piè pari la gavetta e ci mandò in onda il martedì successivo.
Senza aver “magnato” alcuna pagnotta.
Avevamo qualche
giorno per prepararci, trovare un nome al programma, registrare la sigla.
Decidemmo di chiamarlo “For those about to rock”, come il disco degli AC/DC, un
titolo che ci voleva metà del tempo della trasmissione solo per dirlo. La sigla
era naturalmente il brano omonimo. Preparammo la scaletta, densa di Iron
Maiden, Saxon, Raven, Black Sabbath , Deep Purple e Led Zeppelin. Spargemmo la
voce tra i vari amici e conoscenti e avemmo la quasi certezza che almeno una
ventina di persone ci avrebbe ascoltato. Pare niente.
Così il martedì
successivo, era settembre, si aprirono per noi le porte dello studio 1, quello
della diretta. Era una stanzetta di tre metri per tre. La porta a due ante si
apriva nell’angolo destro e ti trovavi di fronte un piccolo tavolo con
appoggiati sopra due microfoni con la loro piantana. A sinistra si ergeva uno
scaffale di metallo che separava la regia dal resto della stanza. Era come
un muro di strumenti costituito dal
revox, un vecchio Philips con la carcassa in finto legno che fu presto
sostituito da un più moderno Akai cromato, la pila delle due piastre per
cassette, e i due piatti Lenco, uno a destra e uno a sinistra. In mezzo a tutto
questo, che formava una specie di ferro di cavallo, il re dello studio, il
mixer. Le pareti a destra e di fronte alla porta erano occupate dagli scaffali
dei dischi, disposti in ordine alfabetico e divisi tra italiani e stranieri.
Alla destra del regista un piccolo banco con sopra i due telefoni per la
diretta, l’88329 di colore verde e l’88507 azzurro. In mezzo il “traslatore”,
invenzione di Mauro: una scatola di scarpe ripiena di gomma-piuma con due fori
sui quali appoggiare la cornetta del telefono. Ai fori corrispondeva un
microfono per la parte della cornetta che va all’orecchio e un altoparlante
preso da una cuffia per quella che va alla bocca. Il tutto collegato al mixer
serviva per mandare in onda le telefonate.
Mauro era
decisamente un genio: gli impianti della radio erano opera sua e anche gran parte delle soluzioni
“tecnologiche”. I budget erano meno che bassi e ci si arrangiava, ed era un
bell’arrangiarsi dato che normalmente tutto funzionava bene. L’unico problema
era che se malauguratamente qualcosa si fosse guastato l’unico in grado di
ripararlo era appunto Mauro perché un altro non ci avrebbe capito nulla.
Mi sedetti alla
regia, Uliano alla mia sinistra e alla sua sinistra Giovanni con la pila dei 33
giri portati da casa. La cassettina BASF C 12 contenente la sigla era pronta in
piastra 1 e partì puntualmente alle 19,00 di quel martedì di settembre del
1982. Mauro C., nostro amico e
batterista della band che stava nascendo allora, i Blizzard, ci telefonò dopo
cinque minuti per farci i complimenti, dimostrando che non era affatto di
parte. Sapevamo però che c’era un folto pubblico ad ascoltarci: i nostri
compagni di scuola. Carlo, per esempio, che mi prese in giro per una settimana
dopo la prima puntata di For Those About to Rock, ma rimase un fedele ascoltatore
fino alla fine.
Mentre Uliano
era un metallaro puro a me piacevano anche molti altri generi. Così quando
Mauro venne da me e mi disse che non ero male e che, essendoci parecchi spazi
ancora liberi, potevo prendermene un altro, mi presi un’altra ora di
trasmissione, il venerdì sempre alle sette di sera. Chiamai il programma The
Road come la canzone di Keefe cantata da Jackson
Browne, titolo che diventò in breve Hot Dog perché suonava meglio. Ogni venerdì
lanciavo il “disco Hot Dog”, una nuova proposta che poi veniva ripetuta in
altri programmi per una settimana.
Quando
ridipingemmo le pareti della radio di celeste e rosa ci venne in mente di
chiamare tutta la programmazione giovanile “Rosa Station”. Rosa Station
comprendeva tutti i programmi pomeridiani ed era una specie di contenitore. A
trasmettere eravamo in tanti: c’erano Cesare, Massimo, Massimo “Zago”, Gino “Il
Cioppino”, Mario, Romano, Franco, Marcello che metteva cinque dischi su dieci
dei Pooh, Olivo Patacchì, Ettore “Lo Tipografo” che metteva il liscio,
Valentino, Nicola che faceva anche i notiziari.
Ognuno
di noi aveva i suoi stacchetti e le sue sigle registrate su musicassetta. Anche
Zago aveva le sue. Massimo non amava particolarmente essere chiamato Zago. A
sua insaputa prendemmo una delle sue cassette con gli stacchi del suo programma
e la sostituimmo con una registrata da noi, realizzata rallentando la voce in
modo di farla abbassare di tono e con l’effetto eco finale. Lo stacchetto che
registrammo diceva con voce baritonale (la mia): “Deejay Zago-go-go-go-go”.
Massimo, ignaro, lo mandò in onda. Uso un eufemismo e dico che ne fu piuttosto
contrariato. Non ha mai scoperto chi gli fece lo scherzo. Beh, ora l’ha
scoperto, per cui se lo incontrerò prossimamente cambierò strada.
Olivo
faceva il programma di dediche in diretta all’una dopo pranzo. Capitò che
dimenticasse aperto il microfono mentre discuteva con non so chi e gli uscì di
bocca un bestemmione, che andò in ondqa. Telefonò don Peppe Lo Pioà per
protestare animatamente.
Gli
anni della radio sono stati fantastici, spensierati, pieni di voglia di fare e
di divertimento. Ci impegnavamo un po’ tutto per mandare avanti la baracca,
facevamo i turni per mantenere le trasmissioni sempre attive. La domenica
mandavamo a turno in onda la partita di calcio e quella della Sutor. Ascoltavamo
i grandi network che iniziavano proprio allora, come Rete 105 o Radio Deejay,
per prendere spunto ed imparare dai grandi, come Gianni Riso o Federico The
Flying Dutchman. La radio era anche il luogo di ritrovo, per farsi due
chiacchiere con gli amici, fare notte fonda ascoltando musica, improvvisando
una trasmissione.
Ci spostammo al
piano di sopra nel 1985. Fu un lavoro duro e faticoso ma ne valse la pena
perché di sopra, a parte i soffitti piuttosto bassi, l’ambiente era un’altra
cosa. Se non altro c’erano le finestre. Avevamo due studi separati per la regia
e la trasmissione divisi da un vetro il che faceva tanto tanto professionale. I
soci proprietari della radio avevano anche fatto incetta di strumentazione da
un’altra emittente che aveva chiuso i battenti, per cui ci ritrovammo in studio
un mixer gigantesco e fantastico, con tanti effetti e automatismi che prima ce
li sognavamo. I piatti Lenco furono sostituiti da due Tecnics al quarzo, e lì
ci perdemmo, molto meglio i vecchi Lenco a cinghia. Piastre e revox nuovi e uno
splendido microfono Senaizer che faceva una voce chiara e limpida che neanche Linus.
Ora l’ingresso
era lungo le scalette sotto l’arco di piazza e non più in via Enzo Bassi. Dopo
le prime capocciate capimmo subito che bisognava entrare chini. Appena entrati
c’era un accogliente salottino con la scrivania e la bacheca annunci e
comunicazioni. Di sotto rimasero lo studio di registrazione – esattamente
dov’era, il bagno e una saletta per le riunioni dove una volta c’era lo studio
di trasmissione.
La
programmazione cresceva e c’era molta più gente a trasmettere. Nuove leve come
Claudio, Loredano Pulcì, il trio Cristiano, Marco e Gianluca, Tiziano. Rossano.
I programmi prendevano sempre più un taglio “professionale” o, almeno,
miglioravano qualitativamente. La vecchia guardia, Massimo, Gino, Franco,
Valentino e “lo patrò” MM Marcello costituivano l’ossatura. Le nuove leve ci
facevano guardare al futuro con ottimismo. Claudio conduceva un quotidiano di
musica a richiesta che faceva arroventare i telefoni, Tiziano prendeva giorno
dopo giorno una tale professionalità che pareva quasi sprecato con noi, il trio
proponeva un programma talmente all’avanguardia in termini di humor che per
alcuni era perfino difficile da capire. Rossano faceva un bel programma di cinema
e musica. Il mio Hot Dog andava alla grande ed era ormai un’istituzione come il
Super 80 di Zago e il Made in Italy di Gino. Marcello faceva il pre-notturno e
qualche volta ne facevo alcuni anche io. Poi c’erano gli appuntamenti classici:
il dedicone di Natale: tutto il giorno di Natale in diretta con tutti i
conduttori a turno davanti al microfono. Il mio turno fisso per anni fu
l’ultimo, quello dalle 21 alle 24, insieme a Giovanni. Con Franco, invece,
facevamo il “Disco dell’anno”, un quizzone di una puntata soltanto, in genere
la prima domenica dopo Capodanno, dalle otto alle tredici. Domande piuttosto
idiote per avere il diritto di votare e estrazione finale di premi insulsi
tramite collegamento via ponte radio con un’emittente lontana, spesso era una
di Pavia. Ricordo un anno che vinse la Lambada e ricevemmo un migliaio di
telefonate. Roba da chiodi. Leggenda.
Capitò anche
che venissero a suonare alla Sala Francescani tre mostri sacri del jazz: Franco
Cerri, l’uomo in ammollo di Bio Presto ma anche splendido chitarrista, Enrico
Intra, mago del piano e il magnifico contrabbassista Marco Vaggi. Andammo ad
intervistarli io e Giovanni e fu un’esperienza unica. Solo mi faceva specie
vedere Cerri asciutto. Pagherei per avere ancora una copia di quell’intervista.
Sempre con Giovanni facemmo uno special sui Beatles a Natale che durò tre
puntate: la prima fino al 1965, la seconda fino al ’70 e poi la terza sulle
carriere soliste. Fu un lavoro meticoloso di raccolta testi e interviste ma fu
premiato da grandi ascolti e tanti complimenti di ascoltatori entusiasti.
C’erano i
veglioni di carnevale, di solito al palazzetto ma un anno fu fatto al teatro La
Perla, per l’occasione sgombro di sedie. Era un mondo diverso, pensare oggi di
fare tutto questo per puro volontariato, senza che nessuno prendesse una lira o
addirittura con gente che ci investiva di tasca propria senza ricavarne nulla è
quasi impossibile. Eppure lo si faceva, Si mandavano in diretta le partite del
Montegranaro Calcio e delle Sutor ogni domenica. Si mandavano in diretta i
consigli comunali. Avevamo anche il nostro giornalista iscritto all’albo:
Eugenio. Insomma, un’organizzazione piuttosto precisa e tutto a titolo
gratuito, tutto per divertirsi e fare qualcosa per Montegranaro. Roba d’altri
tempi.
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