mercoledì 26 agosto 2015

Vespe



Per la mia promozione agli esami in terza media desideravo tantissimo la Vespa. Ma sapevo altrettanto bene che non l’avrei mai avuta, vista l’iperprotettività dei miei. Provai a chiederlo timidamente e mi bastò lo sguardo di mio padre per capire che era una battaglia che non valeva la pena combattere.
Capitò però che, proprio nel periodo antecedente i miei esami, ci venisse a trovare un cugino di mio padre, zio Bruno, col quale babbo aveva passato la giovinezza nel classico periodo da scavezzacollo che precede l’età adulta. E si misero a raccontare episodi anche poco edificanti dei loro giorni felici in cui, guarda caso, protagonisti erano i loro mezzi di locomozione: la Lambretta per zio Bruno e la Vespa per mio padre. Lo zio raccontò di gite a caccia di fanciulle, corse su strade sterrate, cadute, riparazioni, prove da meccanico e quant’altro avesse come oggetto le loro motorizzazioni. Io ascoltai, mi divertii, ma non ebbi cuore di usare l’argomento per portare l’acqua al mio mulino.
Passò il tempo e anche gli esami. Fui promosso col massimo dei voti. Nonno Peppe mi regalò un televisore per la mia cameretta così che potessi vedermi i mondiali (era il 1982). Era in bianco e nero ma aveva il telecomando. Babbo nemmeno mi disse bravo. Dopo pochi giorni, invece, mi disse: “Vieni con me”. Chiesi dove e lui: “Andiamo da Mario”. “Mario chi?” chiesi io con un brivido alla schiena sperando che si riferisse a Mario Nicoziani, officina Piaggio e affini. Confermò. A momenti svenni.
Mario voleva appiopparmi il Ciao. A me il Ciao faceva vomitare, ma per la serie piuttosto che niente è meglio piuttosto, o piuttosto che la bicicletta è meglio il Ciao, stavo decidendo di accontentarmi. Al che babbo, probabilmente memore dei ricordi rinverditi dallo zio Bruno, chiese: “Ma una Vespa quanto costa?”. Mi si piegarono le ginocchia. La mia 50 Special era bianca, con le fox nere, il bauletto nero, e il portapacchi posteriore con porta ruota.
Non avevo la minima idea di come si guidasse una Vespa, specialmente di come si mettessero le marce. Babbo mi fece esercitare in garage, in quindici metri quadri: prima e lascia la frizione finchè non impari a non farla spegnere o impennare. Non ci volle molto. Da lì passammo all’esercizio su strada, ma davanti la palestra, ora pomposamente chiamata Palazzetto dello Sport, dove non passavano macchine. Andai anche meglio avendo uno spazio di manovra maggiore. Al che babbo mi disse: “Stacci con la testa, fatti un giro e poi portala a casa”.
Andai dietro le mura, sperando di incontrare qualche amico per fare un po’ lo spaccone con la Vespa nuova. E trovai Pierluigi Di Domenico, anche lui con la Vespa nuova, rossa la sua. Anche lui in fase di tirocinio. Dopo i reciproci complimenti per i mezzi nuovi facemmo un giro insieme e ci fermammo dove adesso c’è la curva della circonvallazione, sotto Collina Verde. La circonvallazione ancora non c’era o, meglio, la stavano facendo allora ed era una spianata poco piana e piena di buche coperta parzialmente di ghiaia e terra, e non ci passavano macchine. Ci mettemmo a far rombare i motori: sai che rombo? Due motori 50 cc senza modifica e con la marmitta originale. Fatto sta che lui rombava lavorando di acceleratore con la marcia in folle; io, genio, con la prima inserita. Capitò che mi scivolasse la mano che teneva la frizione con la manopola dell’acceleratore a tutto. Chi ha avuto una 50 Special sa che l’acceleratore non ha la molla di richiamo. La Vespa mi disarcionò e se ne andò per conto suo arrampicandosi sul greppo di via Zoli coricata su un fianco. Io le correvo dietro e Pierluigi si sbellicava. Quando riuscii a fermarla vidi che lo sportelletto della presa d’aria della ventola era tutto scorticato. Panico estremo nell’immaginarmi a dirlo a babbo. Così, inconsapevole don Abbondio, accelerai il passo e andai incontro ai bravi. Andai a cercare mio padre, lo trovai nel suo orto, e gli raccontai senza giri di parole quanto accaduto, aspettandomi la peggiore delle punizioni. Babbo, invece, mi disse: “Sai quante volte andrà per terra quella Vespa prima che impari? Stavolta c’è andata da sola e ti è andata bene”. Parole sante. Lo sportelletto della ventola sparì.
Scoprii presto che la Vespa, col suo motoretto di serie, era un mezzo estremamente inadeguato per Montegranaro e  le sue salite da stambecchi. I soliti amici mi informarono che, senza modifica, ero destinato a viaggiare metà del tempo a spinta. Lo dissi a mio padre che mi rispose che, se non mi andava bene potevo andare a piedi. Un giorno però decise di farci un giro, e quando tornò mi disse: “Mettiti da parte i soldi e, quando ce li hai tutti, facci mettere la modifica minima per camminare. Ci misi tutto l’inverno ma racimolai la cifra giusta per la primavera dopo. Misi una 90, marmitta Proma e lasciai il carburatore 14/12 di serie. Non era velocissima ma in salita era imbattibile.
Era una Vespa modesta per l’epoca. Ricordo miei più o meno coetanei che andavano in giro con Vespe che parevano più aerei: impianto stereo, cupolino parabrezza da corsa, modanature e, soprattutto, modifiche da Gran Premio. Ogni tanto qualcuno assaggiava l’asfalto, anche in malo modo. Io mi accontentavo della mia Vespetta bianca che mi portava al mare a Civitanova o a trovare quella che poi sarebbe diventata mia moglie a Potenza Picena. Allora si poteva fare, le strade erano molto meno frequentate di adesso. Lo facessero i miei figli ora morirei di paura.
Montegranaro pullulava di Vespe ma c’erano anche altri mezzi a due ruote: il Gringo, classico tubone nero con le scritte oro, ce l’aveva Paolo Gismondi. Uliano aveva un Mini Chic celeste metallizzato. Giovanni aveva un Benelli tre marce di prima della guerra. C’era Adriano con la 125 Primavera del fratello, Eros con la sua splendida PX 125 bianca. Poi c’erano i Ciao, i Bravo, i Garelli, i Peugeot. Ma la regina era la Vespa, 50 per i più e 125 o 150 per i più grandi che potevano. Mito dei miti era la 125 ET3.
Un giorno eravamo al mare da Gianfranco, io e Giovanni. Ci vennero a trovare Adriano e Eros, che dietro portava Roberto, un altro amico. Passammo la mattinata in spiaggia e al ritorno io e Giovanni tornammo in macchina con Armando, il padre di Giovanni. Gli altri, naturalmente, coi loro mezzi. In mezzo alla curva detta “de lo zoppetto”, che sta a metà strada tra Casette D’Ete e Montegranaro, la Vespa di Eros scivolò, e lui e Roberto volarono per qualche decina di metri. Non si fecero nulla di serio ma Eros finì all’ospedale perché, essendo senza maglietta, aveva lasciato quasi tutta la pelle della schiena sull’asfalto. Quando lo andai a trovare all’ospedale se ne stava a pancia in giù, dolorante, pieno di pomate lenitive. Mi raccontò l’incidente, descrivendo la caduta più o meno così: “Non lo so come ho fatto, so che a un certo punto volavo. Ho visto il cielo, le nuvole che giravano sopra di me. Ha fatto un male cane, ma sapessi se ha gustato!”

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