Sta lì
seduta sulla panchina dei giardini, tutta sola, col telefono in mano a mandare
messaggi Whatsapp a casa, quella casa lontana anni luce, anni tempo, lingue
diverse, treni e aerei da prendere, soldi da mettere da parte per far studiare
il figlio, per curare la vecchia madre, per mantenere il marito senza lavoro,
per permettersi un breve viaggio di ritorno.
Una
solitudine fatta di amiche sole come lei, con le quali ridere per non piangere
e condividere panchine e sigarette, bicchieri di liquore forte e malinconia.
Una solitudine fatta di giornate lavorative che arrivano fino alla notte, di
sonni lavorativi e senza sogni o con sogni da dimenticare prima del risveglio.
Nostalgie strazianti ignorate tra le faccende domestiche e le cure alla persona
affidata, lacrime ricacciate indietro e una durezza di cuore imposta e
necessaria che non è mai dura abbastanza.
Quello
sguardo fisso sullo schermo, in attesa della risposta all’ultimo messaggio,
quello schermo che apre una porta verso l’est, quel Facebook che mostra le
immagini della sua vita lontana che non è più la sua vita perché lei è qui, su
quella panchina, a respirare un sorso di aria pulita prima di rientrare in
quelle stanze odorose di medicine, di chiuso e di malattia.
L’occhio
lucido, forse la lacrima repressa di una donna che non può permettersi la
tristezza, solo una vaga malinconia di fondo, quando il telefono vibra e
appaiono quelle parole, il saluto di un figlio, l’abbraccio virtuale di un
marito, ad annullare quei chilometri cicatrizzati nel cuore.
Luca
Craia
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