Leggevo
stamattina un articolo su Il Resto del Carlino che narrava di una caso
verificatosi a Montappone ma che rispecchia, anche secondo lo stesso giornalista,
il quadro nazionale. Nella scuola per l’infanzia della patria del cappello, nove
bambini su dieci sono stranieri. È un dato allarmante, non per motivi razziali
come qualcuno starà già pensando, ma per tutelare gli stessi stranieri e la
nostra sopravvivenza culturale. I conti sono facili da fare: se il 90% dei
bambini che frequentano la scuola materna sono stranieri, è logico pensare che,
per quanto la percentuale si possa abbassare al di fuori della scuola, nel
prossimo futuro avremo una maggioranza di cittadini di origine straniera rispetto
agli autoctoni italiani.
Una
maggioranza che avrà una cultura diversa dalla nostra, almeno a quanto possiamo
vedere oggi, nel senso che le etnie che sono giunte in Italia non si stanno
integrando culturalmente. Per integrazione intendo il processo tramite il quale
una persona, proveniente da luoghi e culture diversi, pur mantenendo le proprie
radici culturali, assimila e fa sua la cultura del luogo dove va a vivere,
diventando parte integrante della società che lo accoglie. Questo, in Italia,
non sta succedendo o, almeno, succede in maniera molto parziale.
Le varie
etnie giunte negli ultimi anni tendono ad autoghettizzarsi, per niente aiutate
dalle istituzioni italiane che, per ovvi motivi di comodo, preferiscono creare
quartieri-ghetto, scuole-ghetto e punti di aggregazione ben separati,
nonostante sporadiche iniziative, lodevoli quanto isolate, e a volte ipocritamente
autoassolutorie. Fare corsi
di italiano per stranieri, per esemplificare, è cosa buona e giusta, ma se, nel
contempo, gli stranieri vivono in palazzi di soli stranieri, in isolati di soli
stranieri, in quartieri di soli stranieri, in classi scolastiche di soli
stranieri, il corso di italiano diventa sterile e falso. L’integrazione
richiede mescolanza, richiede contatto tra le culture e richiede che lo
straniero assimili la cultura che lo ospita.
La
contaminazione culturale è positiva ma non può prevedere il soccombere della
cultura del paese ospitante o il suo snaturamento; quando c’è la convivenza tra culture
diverse, la cultura autoctona va salvaguardata. E questo non perché essa sia
migliore delle altre (anche se, nel nostro caso, ritengo quella
occidentale, per quanto imperfetta, molto più evoluta di altre culture
importate negli anni) ma perché è indispensabile evitare spaccature sociali che
possano, nel lungo periodo, creare conseguenze disastrose.
Lo straniero
che giunge in Paese che lo accoglie, trova una struttura sociale e regolamentare
che è diversa dalla sua. Integrazione significa che lo straniero debba inserirsi
in questa struttura senza cercare di cambiarla, accettandola e assimilandola.
Se così non fosse, dopo pochi anni, specie in una situazione di calo
demografico drastico come quello che si vive in Italia, si creerebbe una
pericolosissima dicotomia tra la cultura radicata e regolamentata e quella
nuova, con una ingestibile discrepanza comportamentale rispetto alla regola.
Nell’immediato,
invece, i problemi sono evidenti: se si crea il ghetto, se si amplifica la
distanza naturale tra le culture tenendole separate e non stimolando e
incentivando la vera integrazione, si va allo scontro e all’alienazione dello
straniero. Del resto è sotto gli occhi di tutti come gli immigrati di seconda o
terza generazione non si stiano integrando ma tendano a fare massa critica con
la loro stessa etnia o, al massimo, con autoctoni che vivono situazioni di
alienazione sociale. È evidente che la politica di integrazione fin qui
adottata ha fallito. Occorre rivederla in maniera drastica e renderla efficace.
Luca
Craia
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