Lo chiamo
Sahib perché non so il suo nome, so solo le iniziali. Gli do questo nome perché
so che era Indiano, quindi mi permetto di attribuirgli un nome diffuso in
India. Ho ricostruito per sommi capi la storia di Sahib, quantomeno la sua
storia recente, ed è una storia triste e ve la voglio raccontare, ovviamente
usando un po’ di fantasia perché, lo ripeto, è una ricostruzione basata su
documenti; ve la racconto perché ci pone nella posizione di capire anche cosa possa soffrire
un uomo che lascia la sua terra per venire in Italia a cercare fortuna. E
spesso non la trova.
Sahib non l’ha
trovata. Quest’uomo di quarantotto anni compiuti da poco, la mia stessa età, è
venuto in Italia a cercare lavoro. Immagino abbia lasciato in India una
famiglia, alla quale inviava periodicamente gran parte di quello che riusciva a
guadagnare. È venuto e magari ha trovato lavoro, un alloggio provvisorio,
magari uno di quei bugigattoli umidi nel centro storico, magari una casa di
campagna, una stanza in qualche scantinato. Solo, una vita solitaria, in un
paese lontano, dove la gente parla una lingua che non conosci, che devi per
forza imparare se vuoi vivere lì. E Sahib deve anche aver imparato un po’ di
Italiano, se non altro per farsi capire, se non altro per fare tutte le carte e
vivere qui da immigrato regolare.
Immagino
quest’uomo la sera, da solo, dopo una giornata di lavoro, a consumare una cena
frugale in una stanza fredda. Lo immagino pensare alla moglie, ai figli
lontani. E a farsi forza, per loro, per dargli un futuro migliore. Lo immagino
nei giorni di festa, quando non si lavora, feste lontane dalla sua cultura. Lo
immagino da solo, a casa, o in giro per il paese, un’ombra, un uomo invisibile.
Poi Sahib si
è ammalato. È finito all’ospedale. Non so che malattia gli abbia preso, ma deve
essere qualcosa di serio, perché Sahib è morto. È morto il 15 novembre del 2016
a Torrette, ad Ancona. È morto solo come un cane. Lo hanno messo in una cella
frigorifera e hanno fatto partire la procedura. Sahib non aveva beni, non aveva
niente. Non aveva familiari in Italia a cercarlo, a domandarsi dove fosse. Non
lo ha cercato nessuno. Gli operatori hanno verificato che nessuno avesse
rivendicato il cadavere. Il 23 novembre è arrivata a Montegranaro la nota degli
Ospedali Riuniti di Ancona che comunicava il decesso del cittadino straniero
S.B., residente a Montegranaro. Non essendoci nessuno a provvedere alle
esequie, è toccato al Comune di residenza. Si è dato incarico a una ditta di
pompe funebri e, dopo pochi giorni, Sahib è finito nel Cimitero di
Montegranaro, in una fossa nella parte monumentale.
Chissà se in
India hanno saputo? Credo di no, credo che ci sia ancora qualcuno, là, che
attende una telefonata, una lettera, quel po’ di denaro che Sahib mandava una
volta al mese. Alla fine forse capiranno, magari vorranno venire in Italia a
cercarlo ma non avranno il denaro per farlo. Magari un giorno lo
dimenticheranno, del resto non lo vedevano già da anni. Chissà.
È una storia
triste che ho voluto raccontare, magari usando un po’ di fantasia, per parlare della
tristezza della vita di quest’uomo, venuto in cerca di un sogno, attratto da
chissà quali leggende, quali miti, per trovare la morte in un Paese lontano,
pieno di difficoltà, non più in grado di accogliere chi cerca fortuna come lui.
È un Paese accogliente, l’Italia, lo è sempre stato. E in tempi diversi si
poteva davvero cercare fortuna, magari la si poteva trovare. Ma oggi la gente
che viene per lavorare trova destini avversi, difficoltà enormi, e spesso trova
finali tristi per le loro storie. Anche di questo dobbiamo tenere conto quando
parliamo di immigrazione. Perché se non siamo in grado di dare una vita degna a
chi accogliamo, forse è il caso di trovare altre soluzioni, altre strade. Non
solo per noi, anche per noi, ma anche per loro.
Luca
Craia
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