I fatti di Macerata hanno
scoperchiato un pentolone e, per quanto si cerchi di sviare l’attenzione sull’attentato
razzista di un folle, che rimane, per fortuna, un caso unico e isolato e la cui
deprecazione non necessita nemmeno di essere sottolineata, il fatto più evidente
e preoccupante è il fallimento totale del sistema di accoglienza. Quello che
sta emergendo dalle indagini in corso sull’omicidio di Pamela Mastropietro,
oltre all’orrore indicibile e all’estrema crudeltà applicata dagli artefici, è
che questi sono stati lasciati a delinquere con estrema leggerezza per una
serie di malfunzionamenti e negligenze che il sistema non ha rilevato, il che
rappresenta il pericolo concreto che fatti del genere possano capitare ancora
senza che le Istituzioni riescano a prevedere e arginarne l’evoluzione.
Il resoconto dei fatti
presentato da Cronache Maceratesi nell’articolo di ieri a firma di Federica
Nardi (leggi l'articolo) presenta un quadro spaventoso in cui Innocent Osenghale,
il primo dei Nigeriani accusati del delitto, avrebbe gravitato intorno ai
servizi di accoglienza per rifugiati offerti dal Gus per circa due anni senza
realmente usufruirne, quindi violando in questo modo il contratto e il
regolamento di accoglienza, nel mentre viveva nella più totale illegalità
dedicandosi allo spaccio e chissà a quale altra attività criminale, fino a
giungere, indisturbato, a commettere l’omicidio della giovane romana. Due anni
in cui il Gus ha regolarmente percepito i contributi relativi al soggetto che,
però, non era nei fatti sotto il suo controllo.
L’espulsione dal programma di
accoglienza sarebbe avvenuta soltanto il seguito all’arresto dei Nigeriano
colto a spacciare e non perché il Gus ne avrebbe segnalato le inadempienze
come, in teoria, sarebbe stato tenuto a fare. Nonostante l’arresto e il decreto
di espulsione, l’uomo è potuto rimanere sul suolo italiano e ha potuto
continuare a delinquere senza che nessuno lo tenesse sotto controllo o rendesse
esecutiva l’espulsione. Insomma: per circa due anni nessuno si è accorto,
almeno ufficialmente, che questo soggetto era un delinquente e nessuno ha preso
provvedimenti fino al momento in cui è stato colto il fragrante. E anche dopo l’arresto
nessuno lo ha più seguito. Questa è la prova che il sistema non funziona.
Se vogliamo davvero aprirci
all’accoglienza occorre mettere a punto un sistema preciso e affidabile col
quale controllare e monitorare l’attività di chi viene accolto, a partire dal
riconoscimento dello status di rifugiato, dato con troppa leggerezza. Anche
questo emerge dalle indagini, visto che il Nigeriano in questione godeva dello
status di rifugiato pur provenendo da una zona non in guerra e non sottoposta a
rischi particolari. E dopo l’accoglienza occorre che gli ospiti del sistema
siano controllati costantemente. Non è possibile che un soggetto posto sotto la
tutela di un organismo che collabora con lo Stato sia lasciato libero di
delinquere senza che nessuno se ne accorga. Evidentemente mancano i meccanismi
tramite i quali eseguire i controlli e i collegamenti tra gli operatori e la
Prefettura.
Il ruolo delle Prefetture, in
questa fase storica, è estremamente delicato e l’impressione che si dà è che si
stia cercando, a livello di rappresentanza territoriale dello Stato, di
minimizzare i problemi. I continui dispacci che arrivano dai Prefetti e che
parlano di criminalità in diminuzione a fronte di continui episodi
delinquenziali e a un senso di insicurezza da parte dei cittadini sempre più
forte, fa pensare a uno scollamento tra chi controlla e quello che accade
realmente. Il problema si acuisce perché i dati forniti dalle Prefetture,
essendo sostanzialmente tranquillizzanti per quanto discrepanti con la realtà
percepita dai cittadini, forniscono la motivazione per non elevare il livello
di controllo. I fatti di Macerata dimostrano che, invece, il livello di
controllo è estremamente troppo basso ed è lì che si deve intervenire prima che
in ogni altro segmento del processo di accoglienza che, comunque, va ripensato
nella sua interezza.
Luca Craia
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