Enzo Rendina è finito sotto
processo. Dopo aver perso tutto a causa del terremoto che ha distrutto il suo
paesino, Pescara del Tronto, dopo aver rischiato egli stesso di rimanere
schiacciato dalle macerie della sua casa, dopo aver aiutato i soccorsi
nonostante vittima egli stesso, ora lo Stato lo processa. Un processo che segue
l’arresto, avvenuto nel gennaio dell’anno scorso, che l’uomo ha dovuto subire perché
rifiutava di lasciare i luoghi del terremoto, la sua terra.
Rendina non voleva essere
deportato come tanti suoi compaesani, non voleva che lo Stato, anziché sostenerlo
e trovare tutte le soluzioni perché lui e i gli altri Pescaresi potessero restare
a Pescara, a far vivere quel paese distrutto, a mantenere viva la comunità, lo
sbattesse a centinaia di chilometri da lì e chissà per quanto tempo. Resistenza
a pubblico ufficiale, l’accusa, insieme quella di interruzione di pubblico
esercizio. Ci sarà un processo, coi tempi lunghi che la giustizia italiana
accusa, un processo che Rendina sta già attendendo da oltre un anno e che è
stato di nuovo rinviato, l’altro ieri, al 17 settembre.
Rendina respinge le accuse e lamenta
a sua volta di essere vittima di un processo di ritorsione, per il suo impegno,
per il suo darsi da fare, per il suo non accettare quanto veniva imposto. Io
non ero presente al momento della sua presunta “resistenza”, quando volevano
cacciarlo da Pescara, e non so cosa sia accaduto esattamente. So solo che c’è
un uomo che, oltre alla sofferenza che ogni terremotato prova per essere stato
strappato alla sua casa, alla sua terra, alla sua vita, oggi deve subire un
procedimento giudiziario che, francamente, credo potesse essere evitato. Ma lo
Stato si mostra sempre implacabile coi deboli e debolissimo coi forti.
Non conosco Enzo Rendina
personalmente e non posso fare altro che esprimergli la mia più totale
solidarietà, di fronte all’ennesimo tassello che testimonia la volontà
vessatoria dello Stato nei confronti dei terremotati.
Luca Craia