Oggi fanno quarant’anni tondi
da quel 9 maggio 1978 che segnò il tragico epilogo di uno dei capitoli più bui
della storia recente e cambiò radicalmente la storia dell’Italia. È un giorno
che va ricordato, non soltanto per la celebrazione, tra l’altro giusta e
doverosa, della grandezza dell’uomo Aldo Moro, statista finissimo dotato di una
visione complessa e geniale dello Stato e della sua evoluzione, ma anche per l’insegnamento
che porta con sé, un insegnamento che travalica la retorica e che tocca temi
purtroppo ancora stringenti nella contemporaneità del loro potenziale
ripetersi.
Il ’68 in Italia non è mai
realmente finito. Non era affatto finito, anzi, era nel pieno del suo furore e
della sua degenerazione in quell’anno di sconvolgimenti profondi, nel cui
contesto si inserì il rivoluzionario tentativo di coinvolgere la sinistra nel
governo del Paese, tentativo che si risolse con la morte del suo ideatore. Una
morte prevedibile, perché le idee di Moro erano in grado di stravolgere la
situazione tanto di creare problemi a più parti, stravolgendo le strategie
geopolitiche americane e quelle sovietiche, annullando l’azione rivoluzionaria
eversiva della sinistra extraparlamentare e riducendo il potere della destra
centrista. Insomma, Moro firmò la sua condanna a morte solo concependo l’idea
di compromesso storico.
Nello stesso tempo, però, la
morte di Moro, così come ci è stata raccontata, non ha senso. Non ha senso
soprattutto perché sembra impossibile che le Brigate Rosse non abbiano compreso
che quell’azione scellerata avrebbe segnato l’inizio del proprio inesorabile
declino, eliminando con un colpo solo quel consenso strisciante che pure era
presente e cresceva in parte dell’opinione pubblica e che tanto rendeva
pericoloso il piano eversivo dei terroristi comunisti. Per questo appare inconcepibile
come quest’azione potesse inserirsi in un piano che, fino ad allora, sembrava
quasi perfetto.
Non ci hanno mai raccontato
la verità, i protagonisti in negativo di questa storia. Anzi, ci hanno
raccontato un sacco di frottole, tanto da dare adito al sospetto che la loro
presumibile inconsapevolezza di essere manipolati e usati da poteri ben più
grandi di loro non fosse reale ma solo parte del piano. Quel che è certo è che
non agirono da soli, che non erano sufficientemente attrezzati né per un’azione
militare così precisa quale fu il rapimento né per rimanere nascosti per così
tanto tempo senza essere disturbati.
La morte di Moro è servita a
molti ma non alla causa della cosiddetta rivoluzione proletaria. Eppure il
rapimento poteva essere un’arma tattica notevole: se soltanto le BR avessero
rinunciato alla trattativa e liberato Moro, avrebbero vinto loro. Era evidente,
ma non lo hanno fatto, consegnando il loro progetto alla sconfitta e alla
storia un giudizio implacabile sul loro operato.
Sono ancora vive, nella
nostra società di oggi, a quarant’anni di distanza, alcune di quelle pulsioni
che portarono all’affermarsi e al rafforzarsi della lotta armata. Anzi, il
clima politico attuale, unito alla profonda crisi economica e sociale che l’Italia
sta vivendo, stanno creando i presupposti perché si possano innescare nuovi
focolai eversivi. Questo rappresenta un pericolo doppio, dato dall’eversione
stessa ma anche e soprattutto dalla possibilità di infiltrazioni e
strumentalizzazioni della stessa eversione da parte di poteri forti, quegli
stessi poteri che allora determinarono la morte di Aldo Moro e le sue modalità,
che allora furono capaci, in un colpo solo, di annullare gli effetti della
politica moderna e lungimirante del Presidente della Democrazia Cristiana e,
nello stesso tempo, spingere lungo il declino le velleità rivoluzionarie dei
nuclei terroristici di sinistra. Quei poteri sono ancora forti, più forti che
mai. E il ritorno dell’eversione non può che fare il loro gioco. Esattamente
come allora.
Luca Craia