Clima vacanziero e rilassato,
ad agosto, quindi pubblico, tra i ragionamenti vari sull’attualità, alcuni dei
miei racconti. Se avete piacere, leggeteli. Partiamo col primo, Pocalisse, un
racconto surreale estivo.
Faceva un caldo dell’altro
mondo il giorno del funerale di Giancarlo. Solo che, se andate in paese oggi, a
distanza di anni, e chiedete a qualcuno, il primo che passa, di raccontarvi dei
funerali di Giancarlo vi si chiederà: “Giancarlo chi?”. Perché, vedete, nei
paesini di quella regione stretta tra gli Appennini e il mare Adriatico,
avvezza alle perturbazioni dai Balcani e allo Scirocco estivo, benedetta da un
clima mitissimo d’estate e comunque piacevole d’inverno, un luogo dove si va
dalla costa al monte Sibillino in meno di un’ora, i nomi non dicono nulla:
contano i soprannomi. E il nostro Giancarlo (che di giancarli lì ce n’erano
diversi) si chiamava per tutti Pocalisse. Di fatto questo curioso personaggio,
sempre vestito con un grembiule da farmacista o da macellaio, fate voi, bianco
all’origine e chiazzato di ogni colore del creato per le sue peregrinazioni
urbane, era per tutti Pocalisse perché, come nei romanzi d’appendice o nei
peggiori film di fantascienza, dove c’è sempre quella specie di Diogene dei
poveri che gira urlando per le strade annunciando la fine del mondo, girava
appunto per i vicoli del paesello avvertendo il prossimo dell’Apocalisse
imminente. E dava anche la data precisa: il 27 luglio del
millenovecentottantare. Si sa: da quelle parti si storpiano i nomi, figuriamoci
i soprannomi. E così Giancarlo divenne per tutti Pocalisse.
Lui lo annunciava già dal
settantasei per cui ci si meravigliò non poco quando proprio il 26 luglio del
fatidico ottantatré, giornata di un’afa infernale, Pocalisse fu trovato
stecchito e un po’ appuzzato vicino ad un bidone della spazzatura davanti al
palazzaccio, stroncato da un infarto o da una roba simile. Non avendo parenti
prossimi, e quelli poco più che prossimi o remoti che fossero erano latitanti
per vergogna della suddetta parentela, il funerale fu preso in carico dal
Comune. E siccome Pocalisse era da tutti conosciuto e tutto sommato amato per
quel tocco di colore e stramberia che dava ad un borgo altrimenti morto
stecchito, si decise di fargli un funerale coi controfiocchi, in chiesa col
parroco, il Sindaco e pure i carabinieri.
Dato che il decesso era fatto
risalire intorno alle ore dodici del giorno prima, le ventiquattrore di legge
cadevano ad un orario improbabile per un funerale, soprattutto in base al caldo
boia che faceva. Così si stabilirono le funzioni per le diciassette, che
avrebbe almeno rinfrescato un po’. E le si stabilirono nella chiesa nuova,
quella fuori le mura, perché si prevedeva un flusso di gente al di sopra del normale.
Alle sedici e trenta del 27
luglio 1983 alla chiesa nuova fuori le mura, sul selciato, c’erano almeno
quaranta gradi. Dentro la chiesa non si sa ma di gradi ce n’erano tanti. E
c’era anche tanta gente, forse troppa per la struttura. Col caldo bestia che
faceva tutte le donne erano venute armate di ventaglio. Gli uomini presero il
libretto dei canti e lo trasformarono tutti in ventaglio anch’esso. Il
parroco cominciò la messa e già c’era tutto un frullare di mani e mantici più o
meno improvvisati. Il caldo non calmava, anzi, e verso metà predica c’era già
qualcuno che dubitava di arrivare vivo alla benedizione. Don Dino, poi, si
applicò non poco per fare una di quelle omelie che sarebbero pure state
toccanti a novembre ma il 27 di luglio alle diciassette e rotti, con quel
caldo, erano solo una specie di tortura inquisitoria a cui molti avrebbero
preferito la vergine di Norimberga.
Alla Comunione erano ancora
tutti vivi eccetto Pocalisse. I ventagli però frullavano rumorosamente. I pochi
che ebbero la forza di alzarsi per comunicarsi portarono con sé il ventaglio o
il facente funzione e non smisero di sventolarsi nemmeno mentre il prete gli
dava l’ostia. Il rumore dell’aria smossa dalle ventole a mano si faceva
evidente, forte addirittura. Si arrivò alla benedizione che si sentiva più il
suono dell’aria smossa che le parole di don Dino. E qui accadde l’incredibile:
quando il prete prese a spargere l’incenso sulla bara il ritmo dell’ondeggiare
del turibolo prese a coincidere con quello della gran parte dei ventagli. Dopo
pochi istanti, per un incredibile scherzo del destino, tutti i ventagli
andavano allo stesso tempo, avanti e indietro. La chiesa si rinfrescò di botto.
Ognuno sentiva l’aria del
proprio ventaglio e quella del vicino, di quello davanti e anche di quello
dietro. L’aria cominciò a turbinare, piano, poi crescendo, un po’ più
forte, più forte sempre più forte, e iniziò a girare e girare e vorticare nella
chiesa. Tutti smisero di sventolarsi ma ormai era l’inerzia a muovere l’aria,
unita a qualche strano fenomeno fisico dovuto al contrasto tra aria fredda e
calda che non so spiegare. Fatto sta che si generò un vento forte, il vento
girava su se stesso con velocità sempre più spinta. Nella chiesa nuova fuori le
mura volava tutto: fogli, piante, indumenti. La gente si buttò a terra
terrorizzata. I banchi ballavano, le candele si spensero, le luci elettriche
pure. Il prete cominciò a salmodiare in latino. Quelli vicini alla porta
cercarono di prendere l’uscita ma le porte si richiusero di schianto. E un
vortice fortissimo si sprigionò dalla platea verso il tetto. E il tetto, con un
rumore simile a quello di un tuono ma più terrificante, in un nuvolo di
calcinacci polverosi, volò via. Volò per quasi un chilometro e si schiantò in
mezzo a un campo di girasoli, rovinandoli tutti. Insieme al tetto volò via la
bara che, però, fece poca strada e si fermò, rovesciata, sul selciato davanti
alla chiesa. Pochi istanti di armageddon e tutto finì. Il vento si calmò e la
gente si rialzò. Il prete riprese coscienza e cominciò a placare il terrore dei
fedeli. I carabinieri aprirono a spallate la porta. Uscirono tutti come l’acqua
esce dallo scarico del lavandino e fu incredibile che nessuno fini calpestato.
Tutti corsero a casa, sindaco compreso, e rimasero solo il prete e i
carabinieri di fronte alla bara sottosopra del povero Giancarlo. Il paese volò
via sulle proprie gambe, anelante la sicurezza delle proprie mura e l’oblio.
La spiegazione ufficiale fu
che sulla chiesa si era abbattuta una tromba d’aria estiva e aveva divelto il
tetto costruito, si suppose, non proprio a regola d’arte, tanto che l’ingegnere
che aveva firmato il progetto, invero senza nemmeno leggerlo, fu inquisito ma
poi assolto per insufficienza di prove. Ma chi c’era giura ancora che la
tromba d’aria non era venuta da fuori: era nata dentro la chiesa, dai ventagli.
E un paio dei carabinieri che andarono a raccogliere la bara di Pocalisse, dopo
un paio di bicchieri al bar (presi fuori servizio, ben inteso) si lasciarono
sfuggire di avere sentito, o almeno era parso loro di sentire, una specie di
sghignazzo che sembrava, ribadirono sembrava, provenire da dentro la cassa.