martedì 6 agosto 2019

I Racconti della Marca Bassa – 2 - Ettore – di Luca Craia


Ettore entrò in casa nostra la prima volta il giorno di Pasqua, dopo uno di quei pasti luculliani che si fanno solo a Pasqua e a Natale e che ti fanno sentire uno schifo per una settimana. Lo portò Baldovino, l’amico del babbo dei tempi delle elementari che non si vedeva da anni. Ci ritrovammo Baldovino in casa che nemmeno aveva suonato il campanello e aveva in braccio il gatto, tutto nero con una piccolissima macchia bianca sul petto tanto a dire “guardate che non porto sfiga”. Babbo non aveva mai voluto animali in casa. Sosteneva convintamente che le bestie fossero bestie e stavano bene in cortile. Non che non amasse gli animali, anzi. Ma non li voleva in casa. La casa era per i cristiani. Mi aspettavo, quindi, che prendesse gatto e amico e li sbattesse fuori dalla porta. Invece, forse anche perchè era mezzo tramortito sul divano, prese Ettore in braccio e se lo accoccolò sul petto. Quello, come da copione, cominciò a fare il suo prr prr rituale, sempre più forte che sembrava un diesel e babbo si addormentò col gatto in braccio. Così Ettore restò mentre Baldovino non lo vedemmo più.
Crebbe in fretta Ettore. Quando arrivò avrà pesato sì e no un paio d’etti ma nel giro di due o tre mesi divenne un bel gattone nero salvato dall’accusa di menagramia dalla sua macchiolina bianca sotto il collo. Non dava confidenze e non era affatto affettuoso con la sola eccezione riservata alle sue sieste diesel sul petto del babbo addormentato sul divano che era diventata una consuetudine quasi quotidiana, quando il babbo faceva la sua solita pennichella del dopo pranzo. Per il resto non si può dire che il gatto vivesse in casa. Svicolava dalla porta alla prima occasione e te lo ritrovavi in casa che nemmeno sapevi dove fosse passato ma non aveva una cuccia o un luogo a lui destinato. Non sporcava e non puzzava. Evidentemente i suoi bisogni li faceva altrove.
Non mangiava nulla di quello che potevamo dargli in casa. Era cacciatore: lo vidi io stesso afferrare al volo un cardellino che pareva una scena di Superquark. Mi riferirono anche che pescava i pesci rossi dalla fontana dei giardini pubblici. Per il resto mai accettò crocchette, cibo in scatola o avanzi casalinghi. Il babbo aveva accolto di buon grado la sua presenza anche perché in realtà era come non ci fosse. Lo vedevamo di rado e certamente non creava alcun disagio. Solo qualche pelo sul divano ma quello era tollerabile, quanto meno dal babbo, in quanto la pennichella col gatto in grembo era per lui fonte di piacere. Così il babbo puliva i peli prima che la mamma se ne potesse lagnare.
Scoprimmo le qualità terapeutiche della bestia per caso. Vennero in visita dei cugini della mamma, il figlio della sorella di un nipote… e poi mi sono perso tra le parentele e mi sono limitato a considerarlo semplicemente un cugino alla larga. La moglie di questa specie di zio soffriva di una forma reumatica alle gambe che le impediva di camminare correttamente. In sostanza zoppicava in maniera vistosa e ne soffriva, sia fisicamente che moralmente. Come la donna si sedette Ettore le saltò in grembo, cosa assai strana tanto che io e mio fratello ci guardammo di sghembo come a dire “che gli piglia al gatto?” Si stese sulle gambe della donna che lo accolse amorevolmente e cominciò a fare le fusa mentre lei lo accarezzava discorrendo con la mia famiglia. Stette così per circa un quarto d’ora e poi balzò giù e scomparve come faceva di solito. Tornò a casa dopo quattro giorni. Ma la moglie del cugino della mamma, quando si alzò, fece una faccia strana. Guardò il marito, lo tirò per la manica della giacca e gli disse quasi bisbigliando che non provava più dolore. Quello rimase abbastanza interdetto e poi le disse di farsi un giro lungo il corridoio. Non zoppicava più né sentiva alcun fastidio. Sapemmo in seguito che era completamente guarita dalla sua artrosi. Io e mio fratello capimmo che il gatto aveva un ruolo nella questione ma non lo dicemmo a nessuno, tanto per non farsi prendere per cretini.
Capitarono scene analoghe molte altre volte. Sapemmo che i vicini, il cui figlio aveva preso una brutta polmonite e se ne stava a letto imbottito di antibiotici, trovarono Ettore che ronfava sul petto del bambino. La cosa era inspiegabile perché il gatto non era mai andato a casa loro e nemmeno quella volta qualcuno l’aveva visto entrare. Eppure era lì che faceva le fusa sul petto del bambino addormentato e che probabilmente nemmeno s’era accorto di lui. Quando lo sorpresero Ettore si alzò senza scomporsi, si stiracchiò per benino e sgusciò dalla camera da letto per sparire. Tornò a casa dopo una settimana.
Anche mio fratello fu guarito dal gatto. S’era slogato un polso giocando a pallacanestro e Ettore, che mai si avvicinava troppo a nessuno della famiglia eccetto il babbo, si accovacciò sulle sue ginocchia mentre guardava la televisione. Mio fratello ne fu stupito ma lo lasciò fare, in un certo qual modo intuendo che il gatto potesse fare qualcosa per il suo polso. Avevamo infatti compreso, noi ragazzi, che l’animale era piuttosto speciale. Infatti non fu deluso. Quanto Ettore si alzò il polso era come nuovo. Ed Ettore non si fede vedere in casa per tre giorni.
Guarì un sacco di gente ma nessuno capì mai o mai sospettò le sue qualità. Solo io e mio fratello. Ma non ne parlammo mai con nessuno per non farci prendere per matti. Cominciammo soltanto a studiare le mosse del gatto, per quel poco che ci era consentito, data l’assoluta indipendenza della bestia. E notammo che il gatto sceglieva i “beneficiari” delle sue “prestazioni” in maniera del tutto autonoma. Provammo a prenderlo in braccio avendo un ginocchio sbucciato per vedere se lo guariva ma il gatto non si lasciava acchiappare. Era lui a decidere chi guarire. E finita l’opera spariva. Notammo che più grave era il problema risolto più lunga era la sua assenza.
Scoprimmo il male del babbo alla fine di novembre. Accusava sempre più frequenti mal di testa con conseguente perdita della lucidità. Non che non ci fosse più con la testa ma era meno reattivo e strascicava le parole. Era un cancro al cervello. I medici dissero che non si poteva fare nulla e anche le terapie sarebbero state un’inutile perdita di tempo. Babbo era tutt’altro che stupido e la mamma non pensò nemmeno per un istante di tenerlo all’oscuro. Ne fu informato e la prese bene, per quanto si possa prendere bene una notizia del genere. Ma i suoi mal di testa si fecero sempre più forti e frequenti e cominciò a passare le sue giornate sul divano, imbottito di morfina, a sonnecchiare.
Ettore lo schivò per un lungo periodo. Pur essendo abituato a salirgli in braccio durante i suoi pisolini, in quest’ultimo periodo non gli si avvicinava neanche. Io e mio fratello provammo a prenderlo per metterlo in braccio a nostro padre ma il gatto ci sfuggiva regolarmente. L’unica volta che riuscimmo a metterlo sulle ginocchia del babbo scappò rapido come una saetta. Il comportamento di Ettore era inspiegabile: si avvicinava a nostro padre ma rimaneva a distanza. Lo guardava fisso, con quello sguardo inquietante che solo i gatti sanno fare – e il nostro di gatto lo faceva molto più inquietante, credetemi – ma sembrava timoroso solo ad avere un contatto con lui. Finchè non fu il babbo a chiamarlo.
Preciso che, pur essendo il suo “animale da pennichella”, babbo non aveva mai chiamato Ettore per nome. Veramente penso che non l’avesse mai chiamato proprio. Lo ignorava bellamente e non lo cercava. Solo quando si stendeva a riposare il gatto spontaneamente gli saliva in grembo e lui lo accoglieva e lo accarezzava. Il tutto, però, senza proferire parola. Ma quel giorno, vedendo il gatto a due metri di distanza che lo fissava, lo chiamò. Ero seduto sulla poltrona del salotto a leggere e ho sentito e visto tutto con questi occhi. Chiamò Ettore per nome, senza versi di richiamo, solo il nome. Giuro che il gatto trasalì nel sentirsi chiamare. Fece per voltarsi ed andarsene ma il babbo lo chiamò di nuovo: “Ettore, vieni bello”. L’animale rimase qualche istante fermo, quasi pietrificato. Poi adagio si avvicinò al divano e saltò in grembo a mio padre che cominciò ad accarezzarlo. Subito partirono le fusa. Il babbo si addormentò ed Ettore con lui, emettendo un sonoro brontolio. Stettero così per ore, almeno quattro. Non so esattamente quanto tempo ma so che non mi accorsi che Ettore s’era alzato e se n’era andato. Il babbo continuò a dormire ancora un po’ e quando si svegliò il mal di testa era svanito e si sentiva molto meglio. Stanco, debole ma molto meglio. Né io né mio fratello dicemmo nulla ma sapevamo (speravamo) che Ettore avesse fatto il proprio lavoro. Gli accertamenti che il babbo fece nei giorni successivi chi diedero ragione. Il tumore si era “seccato” ed era regredito fin quasi a scomparire. I medici non si spiegavano come mai. Io e mio fratello sì. E ci spiegammo anche il perché non vedemmo