Sono orgoglioso di ospitare sul mio blog, grazie all'interessamento dell'amico Guido Vergari, un pezzo molto interessante di Giuseppe Iorio. Buona lettura.
Un concetto semplice, palese. Una produzione per dirsi
italiana deve essere realizzata in Italia. Un’idea non astratta che tutti noi
possiamo percepire e intuire con estrema facilità, e proprio per questo resta
un dato di fatto, quasi un postulato. Perché mai un capo d’abbigliamento che
certa gente è disposta a pagare qualche migliaio d’euro non debba essere
prodotto qui da noi, sembra quasi incomprensibile. E ci può stare il prezzo,
perché se c’è chi compra, c’è chi vende e di conseguenza dovrebbe godere del
beneficio anche chi ci lavora; nel nostro caso, chi le cose le fa, le produce,
con impegno e sacrificio, e non solo chi
le concepisce. Eppure qualcuno non la pensa così! Ma chi? Forse qualche
contraffattore cronico, magari una lobby di commercianti senza scrupoli, oppure
un avventuriero a cui piace barare…. No! Non è proprio esattamente in questo
modo che stanno le cose.
E non serve armarsi di pala e piccone per andarsene a
scavare attorno all’albero delle monete d’oro, quello di Pinocchio, del Gatto e
la Volpe, cercando una risposta che sia
plausibile; tantomeno bisogna pendere dalle labbra di qualche economista, o di
certi “politici”, o di giornalisti
prezzolati, edotti sull’argomento a modo loro, o meglio sarebbe scrivere
“indotti”, che quotidianamente, al soldo di soggetti che non hanno altro scopo
nella vita se non accrescere patrimoni a discapito di tutto e tutti, eludono
quotidianamente il solo vero problema che sta alla base di ogni malessere e che
sta trascinando il nostro Bel Paese nel baratro: il lavoro. Quello vero. Quello
che puoi “toccare”… La risposta è semplice; paradossalmente semplice, perché i
“delocalizzatori”, quelli che producono beni di lusso all’estero, sono proprio
loro, i creativi del “Made in italy”, gli esponenti più celebri, celebrati e
stimati dell’eccellenza italiana. I baroni del lusso, i chirurghi del prêt-à-porter,
capaci d’estrarre tradizione e conoscenza per produrre disagio, indigenza e
disoccupazione, dopo aver ricucito con cura le ferite. I maghi del prodotto “che te lo vendo a mille
e me lo faccio costare cinquanta”, pure se devo spremere povertà e miseria in
giro per il mondo; senza scrupoli e senza confini, violando diritti e volando
qua e là comodamente nella cabina di un A380 o di un Falcon privato con la scusa
della globalizzazione. Ne conosciamo i nomi, ad uno ad uno, le loro storie, gli
imbrogli, le strategie, le ricchezze e i fatturati.
Alla fine, viaggiare alla ricerca di posti sperduti
dove poter grattare qualche manciata d’euro per “ottimizzare” i costi di
produzione; alla fine, genera esperienza. Ma in fondo, l’esperienza è fatta di
ricordi, belli e brutti. I secondi, nel caso di chi prende coscienza di un
sistema corrotto e corrosivo, sono di gran lunga più numerosi dei primi. Però
c’è un lato positivo in tutto questo: la miseria, le condizioni spesso disumane
di gente sfruttata per pochi euro al mese, possono almeno provocare una
reazione. Scrivere. Parlare. Dire la verità, e spartire quei ricordi, anche se
non è facile. È facile entrare nel sottotetto di casa e frugare in uno
scatolone pieno di foto e vecchie cassette vhs, alla ricerca di un momento
difficile da piazzare nel tempo. Poi, all’improvviso trovi quello che stavi
cercando, e allora lo condividi, magari portando quella vecchia foto a qualcuno;
a tuo figlio, che nel frattempo sta diventando un uomo e ti guarda in modo
strano, forse perché intuisce che in quella spasmodica ricerca di un ricordo,
stai seriamente cominciando ad invecchiare. Tutt’altra cosa, invece, è spostare
un’idea, un concetto, nella testa di chi si cura solo del profitto nonostante
sia già ricchissimo. È difficilissimo; perché, forse, è malato.
Certi argomenti si trattano con un consueto malumore.
Tutto va alla malora, la crisi è inarrestabile, gli sciacalli del “Made in Italy”
producono solo miseria e i pochi che si arricchiscono lo fanno a discapito di
tutti… E tutti siamo noi.
Sventuratamente è tutto vero e, francamente, non è
facile trovare un altro modo per esprimere la delusione e la rabbia legate al
fatto che le eccellenze del settore Moda – Lusso, e non solo, non provino
neanche a generare un minimo di ricchezza condivisibile da una fascia più ampia
della popolazione, almeno quella che ci lavora o meglio, mi correggo, che se le
cose andassero per il verso giusto potrebbe lavorarci.
Sarebbe bello poter trattare l’argomento in modo
differente. Nemmeno invertendo certi canoni, lasciando spazio a certe ouverture
traboccanti di presupposti catastrofici, e sarebbe altrettanto bello sbattere
in faccia a chi sta massacrando il nostro Paese esempi positivi, sani, che
sanno di buono. E ce ne sono di persone, imprenditori veri, che nonostante
tutto riescono ad associare etica e lavoro; semplicemente curandosi degli
altri, della gente che gravita attorno al piccolo universo che loro stessi
hanno creato e che sta alla base di tutto, della crescita e del successo.
Semplicemente. Dignitosamente.
Purtroppo, con azioni mediatiche, vengono soffocati
dai più, da quelli che contano veramente e che al pari di certi politici di
lungo corso preferiscono stare nell’ombra o defilarsi quando hanno a che fare
con la verità. Abili manipolatori d’opinioni, lasciano che certi argomenti
siano relegati al basso rango di stupide dicerie: pettegolezzi appunto, perciò
disertano ogni occasione. Nel frattempo, magari, se ne stanno a controllare in
Turchia che una camicia da quattrocento euro sia confezionata alla perfezione
in cambio di una cassetta di patate – al mercato la cassetta costa 6/7 euro – o
a Prato, da qualche cinese che per pochi spiccioli confeziona borse rivendute a
duemila e passa. Scompaiono, diventano invisibili per poi riapparire da abili
illusionisti, solenni, lapidari, religiosi, su di una passerella da qualche
parte nel Mondo.
Perciò, è da stupidi ostinarsi a sconfinare in quel
vecchio positivismo di strada, tanto caro a chi fa gossip e a chi distorce la
realtà ostentando un mondo fatto di ristoranti sempre pieni giorno e notte, di
strade affollate da gente col portafoglio carico, di negozi tracimanti di
clienti che quasi non ce la fanno a tener su borse e pacchi! Di auto di grossa
cilindrata vendute al pari delle utilitarie e che scorrazzano per le
carreggiate delle nostre strade e autostrade. Il tutto senza porsi una banale
domanda: ma dov’è che si vedono queste cose e soprattutto chi, e con “quale
tipo” di denaro può permettersele? Dov’è che i ristoranti sono pieni di persone
che spendono una valanga di soldi in auto e vestiti? A Roma… A Milano, forse.
Be’, si. Da quelle parti, se non te ne vai in giro per le stazioni e cerchi di
startene nel perimetro off-limits e on-control del centro del centro ma
veramente centro di città, la realtà magari può anche avvicinarsi un po’ al
concetto di prosperità che lava la coscienza di qualcuno e incrementa la
crescita di un’illusione. Questa scenografia di vita quotidiana non la vedevi e
non la vedi nel restante 80% d’Italia. Nelle città minori, nei posti di
provincia, nei lunghi periodi morti dell’anno, quando per strada non c’è un
cane e i titolari di piccole attività se ne stanno davanti all’entrata dei loro
negozi nell’attesa che qualcuno passi, se passa, e che magari si decida a
spendere una manciata d’euro. Sono quei posti, quei piccoli distretti
artigianali prima sfruttati e poi abbandonati la vera chiave di lettura di una
crisi che forse non c’è mai stata, o che almeno si poteva evitare se a decidere
strategie e a ridisegnare la mappa di questa “nuova” Italia, non fossero stati
abili e avidi architetti.
Giuseppe Iorio
Giuseppe Iorio studia a Parigi, all’École de
mode. Inizia a lavorare per Moncler, Vuitton, Versace, Dolce & Gabbana e
altri. Non frequenta il mondo delle passerelle, ma le fabbriche delocalizzate
di Europa dell’Est e Africa. Nel 2014 contatta la redazione di Report e li porta
in Transnistria, dove inizia anche questa cronaca senza filtri, amara e
dolorosa di come funziona davvero il fashion world italiano.