Aveva 36 anni,
era Rumeno, lavorava in Italia per una ditta che posa la fibra ottica in
provincia di Pordenone. È morto ieri di infarto, dopo una giornata di lavoro
sfiancante sotto il sole a picco. Quello di Bologna, invece, di anni ne aveva
53, ma ha fatto la stessa fine, sempre ieri: è morto di fatica e di caldo, per portare a casa uno stipendio misero. Voi direte che, con questo caldo,
sono cose che possono capitare. Io dico che, caldo o non caldo, queste cose non
devono capitare. Non si può morire di lavoro, il lavoro serve per vivere non
per morire.
Purtroppo
siamo arrivati a questo punto, un punto in cui la vita umana non conta nulla di
fronte alla produttività, alla redditività, a profitto. Il lavoro inteso come
bene di mercato ha un valore bassissimo e chi ne è proprietario, l’operaio, non
ha alcun potere di trattativa. Il sindacato, inteso come ente che tutela il lavoratore,
ormai da tempo si occupa d’altro.
Nel frattempo
la politica gioca col valore del bene-lavoro, importando manodopera a basso
costo, manodopera che non tratta, che non ha diritti e non ne chiede. In questo
modo è tutto il lavoro a svalutarsi, a non valere più niente. E se il lavoro-bene
non vale nulla, chi lo possiede diventa uno schiavo. E uno schiavo muore
lavorando, muore di fatica. Due parole di circostanza, magari dal Presidente
della Repubblica, e lo sotterriamo. Avanti il prossimo: stanno tutti a spasso,
uno per lavorare è disposto anche a rischiare la vita. E spesso la perde.
Questa è l’italia, Paese civile, moderno. Umano.
Luca Craia