sabato 1 agosto 2020

Morire di fatica nella civilissima Italia. Mercato del lavoro da schiavismo. È una vergogna.


Aveva 36 anni, era Rumeno, lavorava in Italia per una ditta che posa la fibra ottica in provincia di Pordenone. È morto ieri di infarto, dopo una giornata di lavoro sfiancante sotto il sole a picco. Quello di Bologna, invece, di anni ne aveva 53, ma ha fatto la stessa fine, sempre ieri: è morto di fatica e di caldo, per portare a casa uno stipendio misero. Voi direte che, con questo caldo, sono cose che possono capitare. Io dico che, caldo o non caldo, queste cose non devono capitare. Non si può morire di lavoro, il lavoro serve per vivere non per morire.
Purtroppo siamo arrivati a questo punto, un punto in cui la vita umana non conta nulla di fronte alla produttività, alla redditività, a profitto. Il lavoro inteso come bene di mercato ha un valore bassissimo e chi ne è proprietario, l’operaio, non ha alcun potere di trattativa. Il sindacato, inteso come ente che tutela il lavoratore, ormai da tempo si occupa d’altro.
Nel frattempo la politica gioca col valore del bene-lavoro, importando manodopera a basso costo, manodopera che non tratta, che non ha diritti e non ne chiede. In questo modo è tutto il lavoro a svalutarsi, a non valere più niente. E se il lavoro-bene non vale nulla, chi lo possiede diventa uno schiavo. E uno schiavo muore lavorando, muore di fatica. Due parole di circostanza, magari dal Presidente della Repubblica, e lo sotterriamo. Avanti il prossimo: stanno tutti a spasso, uno per lavorare è disposto anche a rischiare la vita. E spesso la perde. Questa è l’italia, Paese civile, moderno. Umano.

Luca Craia