La matematica è
sempre stata la mia bestia nera. Un po’ per indole, un po’ per una
probabilissima atrofia delle sinapsi del calcolo (esistono?), un po’ perché la
mia adorata maestra elementare, la maestra Lina, insegnandomi l’amore per lo
scrivere, ha trascurato di inculcarmi quello per i conti, fatto sta che mi
ritrovai al liceo scientifico a litigare quotidianamente con le operazioni più
elementari, tanto da meritarmi un quattro alla fine del terzo e una bella
bocciatura a settembre, onta sulla mia immacolata carriera scolastica fatta di
un dignitoso impegno minimo sindacale con rendimento alto. Questo, però, mi
fece conoscere il professor Dindini, l’insegnante che mi diede ripetizioni
estive e mi tirò fuori dal pantano matematico in cui ero finito.
Superato brillantemente l’esame di riparazione
settembrino, i miei decisero che sarebbe stato opportuno continuare a usufruire
dell’aiutino di Dindini, così i miei venerdì pomeriggio, per gli ultimi due
anni di liceo, furono dedicati alle ripetizioni di matematica. Restavo a
Macerata alla fine delle lezioni e, alle 15,00, andavo a Santa Croce, dove
abitava il mio professore di ripetizioni, a farmi le mie due ore di full
immersion tra derivate, integrali, parabole, iperboli e tangenti.
Il venerdì era per me un giorno speciale. Già che la sera,
al rientro a casa, dovevo fare in fretta e furia per arrivare in tempo a Radio
Veregra perché alle 18,45 iniziava il mio programma settimanale, Hot Dog, che
non era l’unico che facessi ma era quello a cui tenevo di più. Significava
scendere dalla corriera alle sei e un quarto, correre a casa, caricarsi in
spalla la tracolla dove tenevo i dischi che avevo messo in scaletta (una buona
metà dei pezzi che mettevo provenivano dalla mia discoteca privata) e arrivare
trafelato in radio appena in tempo per il cambio di studio con Nicola Vacca che
mi precedeva in onda.
Però prima c’era il pomeriggio di studio della matematica
che, se all’inizio era una specie di castigo divino, gradualmente era diventato
un piacere. Lo era diventato certamente grazie a Dindini che stava
incredibilmente riuscendo a farmi capire la materia e, udite udite, a farmici
divertire. Ma la parte più bella erano quelle paio d’ore di assoluta solitudine
in giro per Macerata, in attesa che venisse l’ora delle ripetizioni. In un
primo momento avevo iniziato a mangiare in refettorio, dai Salesiani, ma non lo
gradivo, sia perché non è che si mangiasse divinamente, ma anche perché era una
specie di prolungamento dell’orario scolastico e la cosa mi infastidiva. Così,
d’accordo coi miei, decisi di trovare un posto dove mangiare fuori senza
spendere un capitale.
Trovai una piccola trattoria in corso Matteotti. Era
piccolissima, poco più che un corridoio. Appena entravi c’era, sulla sinistra,
il bancone del bar, uno di quelli anni ’70 con gli inserti in alluminio
anodizzato color oro. Proseguendo lungo lo stretto locale si accedeva alla sala
da pranzo, dove il vano si allargava leggermente per fare spazio a due file di
piccoli tavoli addossate alle pareti. Al centro del muro sinistro c’era
l’ingresso della piccola cucina dalla quale provenivano profumi deliziosi.
Appena ci entrai, la prima volta, trovai al banco una ragazza poco più grande
di me. Io avevo più o meno sedici anni e lei forse venti o ventidue. Alta,
magra magra, bionda bionda e riccia riccia, con gli occhiali grandi di finta
tartaruga come andavano di moda allora. Mi accolse con un sorriso e, alla mia
domanda se potessi pranzare, mi fece accomodare a un piccolo tavolo singolo in
fondo alla sala. La piccola trattoria era gestita da una famigliola maceratese
che, col tempo, imparai a conoscere. Erano padre, madre e due figlie, la
seconda un po’ più piccola di quella che avevo conosciuto per prima. Erano
gente gentilissima e molto aperta, e feci presto a fare amicizia con loro. La
trattoria, all’ora in cui arrivavo io, non era mai troppo piena e in breve
presi una tale confidenza che, forse anche per la mia età molto giovane che
inteneriva i due genitori, arrivai a pranzare al loro tavolo con loro, trovando
un calore familiare che non mi sarei mai aspettato pranzando fuori casa. Era
una sensazione piacevole, pranzare con gente cordiale che ti fa sentire a casa,
con la televisione che trasmetteva Raffaella Carrà che contava i fagioli nel
vaso. Però forse non era esattamente quello che cercavo.
Probabilmente fu proprio questo che, dopo molti mesi in
cui il mio pasto alla trattoria di corso Matteotti era diventato routine,
decisi di staccare e andarci sempre meno. In realtà amavo molto la mia
solitudine del venerdì. Mi permetteva di pensare, di fantasticare, e il mio
camminare per le strade di Macerata col bavero del giubbotto di pelle alzato e
i capelli lunghi agitati dal vento, mentre facevo la strada che da viale don
Bosco arrivava a Santa Croce, dall’altro lato della città, mi faceva sentire
tanto rock. Così trovai un altro posto dove mangiare, un ristorantino che
faceva anche da pub serale all’angolo tra via Roma e corso Cavour. Lì mangiavo
davvero solo ed era decisamente più triste. Ma si sa, a sedici anni, in piena
adolescenza, un pizzico di maledetta tristezza leopardiana ci sta tutta.
Ogni tanto tornavo a prendermi un primo alla trattoria del
centro, ma non mangiavo più al tavolo dei proprietari. Probabilmente anche loro
avevano capito la mia necessità di distacco, però la cosa mi creava una specie
di magone, così smisi proprio di andare e alla fine del quinto liceo pranzavo
solo in via Roma. Però il ricordo della cotoletta con le patatine che facevano
apposta per me e quel calore da famiglia trovata per caso che trovai in quel
locale ancora lo porto vivo, e a volte mi pare ancora di sentire gli odori,
quei profumi lontani di una bella giovinezza spensierata.
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