L’altro giorno, sulla pagina Facebook dell’Ape, ho avuto una piacevole
discussione con un lettore molto schierato a sinistra che mi rimproverava di
vedere solo i difetti della sinistra, appunto, mentre sarei rimasto cieco di
fronte a quelli della mia parte politica. Ho cercato di spiegargli che la mia
parte politica non c’è più, che suono un uomo di sinistra, anche se mai
marxista, e che non trovo più la mia collocazione politica; che penso
liberamente non appartenendo a nessuno e non sventolando bandiere. Credo possa
essere utile a chi si chiede, come l’amico di cui sopra, come diavolo la pensi
e perché la pensi così, leggersi questo mio racconto, pubblicato sulla mia
raccolta “I Racconti della Marca Bassa” che presto andrà in ristampa. È un
racconto di vita vera perché il protagonista, Peppe, è mio nonno e i fatti sono
realmente accaduti. Se vi va, leggetelo.
Peppe era un repubblicano vero, amico fraterno di
Nannì il senatore, anticlericale e antifascista. Non era facile essere né l’uno
né l’altro durante il ventennio, specie se gestivi una cantina in un piccolo
paese. La cantina, all’epoca, era sostanzialmente un’osteria, una via di mezzo
tra il bar e il ristorante di oggi. Vi si mesceva il vino e si servivano pasti
semplici. Nella cantina di Peppe incontravi tutte le categorie umane e molte
categorie politiche: dal gerarca fascista al comunista silenzioso (ma non silente).
Peppe doveva gestirli tutti, senza inimicarsi nessuno, e in questo era un
artista. Era un cantiniere fermo ed esigeva disciplina nel locale, ma sapeva
essere cordiale con tutti e gli affari andavano più che bene.
Peppe non aveva grande simpatia per i comunisti, ma
solidarizzava con loro in quanto non liberi di esprimere il proprio pensiero.
Neanche lui lo era. Il suo amico deputato, che deputato non era più, entrava e
usciva dal carcere e lui non poteva permetterselo. Aveva una famiglia, per quanto
piccola, da mantenere e una figlia che adorava. Per cui la politica era bandita
dal suo locale. Ma fuori, lontano da orecchie indiscrete, spesso si confrontava
su quei temi con amici comunisti e socialisti, anche se spesso, molto spesso,
non li condivideva. La sua idea era diversa.
Su una cosa era stato inflessibile: non aveva mai
voluto prendere la tessera del partito. Di quello fascista intendo. Quella
repubblicana ce l’aveva eccome, ben nascosta nel cassetto del comò, insieme
alla foto di Mazzini e a quella di Garibaldi. Ci era riuscito, a non prendere
la tessera intendo, per via di una forma di rispetto reciproco che sfiorava
l’amicizia che lo legava al Podestà, il marchese, che era uomo integro
moralmente, molto affabile, estremamente intelligente. Peccato fosse fascista,
ripeteva spesso Peppe.
Un giorno, però, arrivò in cantina un garzone del
marchese che trasmise l’invito perentorio di recarsi in tutta fretta in
municipio perché il Podestà voleva conferire con lui. La cosa parve strana e
Peppe si tolse lesto il grembiule e si recò in piazza non senza una certa
apprensione. Il marchese lo ricevette subito, lo fece accomodare, e andò al
dunque. Stavano per venire in paese dei gerarchi dal capoluogo e venivano
appositamente per verificare voci circa alcuni cittadini che non erano ancora
iscritti al partito. Volevano verificare che non fossero sovversivi, nemici
della patria, comunisti insomma. “Io lo so che tu tutto sei meno che comunista,
Peppe” disse il Podestà “ma comunque repubblicano lo sei, lo sanno tutti, e
questo non depone a tuo favore. Senza tessera ti difendo male. Ricordati che
c’hai una figlia piccola…”. Peppe si alzò senza aprire bocca, girò sui
tacchi e se ne andò con un secco “buongiorno”.
Non dormì tutta la notte, ma non ne parlò con la
moglie per non crucciarla. Il mattino dopo la decisione era presa. Toccava fare
la tessera. Andò dal marchese che lo accolse sorridente. Disse che era certo
della sua ragionevolezza e che la tessera era già pronta sopra il suo tavolo.
Peppe uscì dall’ufficio del Podestà con la tessera del Partito Nazionale
Fascista in tasca e gli occhi gonfi di lacrime.
Arrivarono i gerarchi dal capoluogo nei giorni
seguenti. Pestarono e purgarono, ma non Peppe. Per quasi un mese alla cantina
mancarono diversi avventori abituali, tutti comunisti e socialisti. Poi
ricomparvero, ma con lo sguardo truce rivolto al cantiniere. Uno si avvicinò al
banco e chiese: “Non ti pesa quella tessera in tasca?”. La sera Peppe chiuse la
cantina alla solita ora e fece per andare a casa ma, girato l’angolo, si trovò
tre sagome grosse e scure a sbarrargli la strada. Due lo bloccarono e il terzo
lo prese a pugni e calci finchè quasi svenne. Lo lasciarono accasciato a terra.
Nessuno seppe mai chi fossero quei tre. Tranne Peppe.
Luca Craia