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lunedì 9 gennaio 2017

Muoiono le bestie, muore l’economia dei Sibillini. La storia di un allevatore di Pieve Torina

L’area colpita dal terremoto ha o, meglio, aveva una sua economia peculiare, fondata su cibo e turismo. Le attività predominanti nell’area dei Sibillini sono sempre state l’allevamento del bestiame e il commercio legato al turismo. Col terremoto, con il conseguente crollo della richiesta turistica e con lo spopolamento dovuto alla decisione politica di spostare la popolazione altrove, l’economia legata al commercio è crollata. Un’attività commerciale non può stare chiusa per mesi e poi riaprire come nulla fosse, per cui è lecito immaginare che, quandanche a primavera arrivassero i tanto sospirati moduli abitativi, questi possano servire a poco in quanto le attività commerciali avranno difficoltà a riaprire e ricominciare. Si sarebbe potuto installare i moduli abitativi immediatamente, salvaguardando il tessuto sociale esistente e, conseguentemente, l’economia a esso legata, ma si è deciso, per disegni politici evidentemente diversi, di fare altrimenti.
Per quanto riguarda, invece, l’economia legata all’allevamento del bestiame, questa sta subendo un colpo micidiale dall’inverno. Un’Ansa di stamattina ci racconta la storia di un allevatore di Pieve Torina, Attilio Rivelli, che possiede o, meglio, possedeva una stalla con centocinquanta capi bovini. La stalla ora è senza tetto. Alcune mucche sono ospitate nella stalla di un amico, le altre sono sistemate sotto una tettoia, sostanzialmente all’aperto. La famiglia Rivelli sta perdendo il suo bestiame, perchè è arrivato il freddo, l’acqua si ghiaccia e le bestie rischiano l’assideramento. Inoltre i lupi hanno attaccato la proprietà dell’allevatore e ucciso due vitellini appena nati.
Attilio Rivelli era disposto a comprare una stalla mobile ma gli è stato detto di aspettare, perché sarebbero arrivate quelle dello Stato. Aspettando è arrivato l’inverno, ha compilato montagne di moduli ma della stalla non c’è traccia. Intanto gli animali muoiono. Intanto muore l’economia dei Sibillini. Per l’incompetenza di chi ci governa o per un progetto preciso? Lo vedremo, ma le responsabilità si stanno facendo pesanti.

Luca Craia                                                

martedì 3 novembre 2015

Calzaturiero mai così in crisi. E la politica pensa ad altro.



Leggo con preoccupazione l’articolo di oggi su La Provincia di Fermo.com, il notiziario online che si occupa prevalentemente del Fermano, che ci riferisce in maniera molto chiara quale sia la situazione per la quattro maggiori vertenze dovute alla crisi del comparto calzaturiero e che interessano importanti aziende del territorio fermano. Approfitto per fare i complimenti a Raffaele Vitali per essere l’unico ad approfondire la questione che è di vitale importanza ma sembra non interessare nessuno. E il problema è proprio questo: la nostra monocoltura economica, la produzione di scarpe, che tanta ricchezza e benessere ha generato in passato, oggi sta morendo. E muore nell’indifferenza generale.
A Montegranaro la produzione di calzature è in calo da decenni, sia per contingenze economiche sia perché i nostri imprenditori spesso hanno preferito portare il lavoro all’estero piuttosto che continuare, magari con margini di profitto più ristretti, a far vivere la loro terra. Scelte legittime, per carità, dovute alle difficoltà per produrre in Italia ma anche a volontà imprenditoriali precise. La questione, però, è seria e potrà avere conseguenze pesantissime sull’equilibrio sociale del territorio.
La questione Calepio ha fatto sì che il problema, a Montegranaro, assumesse contorni ancora più gravi, a causa dell’impossibilità, per anni, di impiantare economie industriali alternative alla calzatura, proprio per l’assenza logistica di una zona industriale moderna e attrezzata. La situazione, quindi, ha un potenziale negativo impressionante. Ciononostante vedo la politica, soprattutto nel sociale, molto distratta, preoccupata di altre cose, interessata ad altro.
Non ho visto azioni importanti ma, soprattutto, non ho visto alcuna analisi della situazione e alcuna proposta per la sua gestione futura. Perché, vedete, è probabile che, a Montegranaro, nei prossimi anni dovremo vivere una situazione economica molto diversa da quella del passato e anche da quella attuale. Sarebbe necessario studiare le possibili conseguenze della crisi e provare, fin d’ora, a trovare delle soluzioni. Ad oggi, però, non registro alcuna azione in questo senso. È un atteggiamento miope o rassegnato? Non saprei dirlo, ma certamente spendere tante energie per questioni tutto sommato futili e non preoccuparsi del futuro sociale ed economico non è certo atteggiamento da buon amministratore.

Luca Craia

mercoledì 17 dicembre 2014

War is over? No, è solo un altro tipo di guerra.




Oggi, 16 dicembre 2014) sono 45 anni da quando John Lennon e Yoko Ono fecero uscire il singolo Happy Xmas (War is over), canzone che negli anni è stata inflazionata da pubblicità e cover inappropriate ma che, leggendo bene il testo, rimane uno degli inni alla vita e all’amore più potenti mai scritti da un uomo. Il testo è ancora, purtroppo attualissimo, perché la guerra non ha mai lasciato il pianeta e, come ben sappiamo, con la caduta della cortina di ferro e la fine della cosiddetta guerra fredda in realtà anziché assistere a un processo globale di pacificazione ci siamo trovati in un mondo sempre più belligerante, con conflitti disseminati in ogni angolo della terra.
C’è un nuovo modo di fare la guerra, oggi. È un modo che non sostituisce quello tradizionale condotto con bombardamenti e pallottole perché questo è necessario per mantenere in vita un’economia basata sulla proliferazione delle armi, economia che non ha mai cessato di prosperare. Questo nuovo modo non spara ma uccide ugualmente. Non sparge sangue e non abbatte case con le armi ma lo fa con la povertà indotta. Oggi la guerra si fa con l’economia.
La politica espansionistica degli Stati Uniti non ha mai smesso di cercare di conquistare nuove posizioni geopoliticamente strategiche. Solo che una volta la strategia prevedeva l’installazione di armamenti e il controllo politico dei governi. Oggi non basta più, oggi serve il possesso materiale dei Paesi. Per farlo l’unica strada è farli morire di povertà. È quello che sta accadendo in Grecia, è quello che sta accadendo nel sud del Mediterraneo, è quello che sta piano piano accadendo in Europa.
Non è, quindi, come si paventa da tempo, una sorta di complotto globale economico a portare a questa nuova impostazione del globo ma una strategia geopolitica di conquista condotta dagli USA e contrastata con armi impari dalla Russia. Tutto per fronteggiare lo strapotere orientale della Cina che già da anni sta conquistando parte del mondo con l’arma economica. L’unione dei Paese europei poteva essere lo strumento di difesa per questo attacco alla nostra libertà ma è miseramente fallito perché, evidentemente, si è riusciti a pilotare la stessa costituzione di un fronte unito dei Paese europei facendo naufragare miseramente il progetto di unione iniziale. Politici corrotti e incapaci hanno fatto il resto.
La guerra, quindi, anche per questo Natale non è affatto finita, anzi, forse è appena cominciata. Francamente non vedo grandi speranze di salvezza tranne la rassegnata speranza che tutto duri poco e che, una volta sacrificata la nostra libertà, si possa almeno tornare a condurre un’esistenza dignitosa se non per la mia generazione ma almeno per quella dei miei figli. Ciò non vuole comunque dire che io mi arrenda, tutt’altro.

Luca Craia

martedì 19 agosto 2014

Moriremo tutti di Cina



Una volta pensavo che saremmo morti tutti Cinesi, visto l'enorme potenziale economico dello stato asiatico unito alla potenza bellica e nucleare. La Cina sta conquistando il mondo e, in realtà, per farlo non ha bisogno di usare le armi che pure ha. È sufficientemente bastevole la concorrenza imbattibile che è in grado di esercitare sui mercati, la politica prima indirizzata all'attrazione di capitali esteri e poi all'investimento all'estero in termini di know how e attività produttive. A questo possiamo aggiungere la miope strategia imprenditoriale dell'Occidente che, nel miraggio di facili guadagni, ha favorito l'espansionismo economico del colosso orientale ed eccoci qua, in piena crisi con conseguenze geopolitiche irreversibili e in costante evoluzione.
Moriremo tutti Cinesi allora? Non credo. La Cina, nella sua frenesia produttiva, nella sua corsa alla conquista del mondo attraverso il predominio sui mercati, sta bruciando risorse planetarie oltre ogni misura, buttando veleni in atmosfera, ammorbando le acque, contaminando il pianeta come noi facevamo fino a poco fa, quando iniziammo a imparare a rispettarlo. La Cina produce inquinando e avvelenando tutti. Di questo passo non moriremo Cinesi, moriremo di Cina.

Luca Craia

mercoledì 26 febbraio 2014

Vendo tutto (ai Cinesi) e me ne vado



Ma si, via. Che sia proprio questa la soluzione. Vendiamo tutto e andiamo via. Dove non so ma via. Tanto ci sono i Cinesi che si comprano tutto. Si sono presi Krizia proprio l’altro giorno, si stanno mangiando pezzetto pezzetto la nostra industria manifatturiera, come a Prato o qui nelle Marche, prima mettendo in ginocchio il terziario con il loro lavoro concorrenzialmente imbattibile in quanto completamente fuori da ogni regola, per poi comprarsi la produzione vera e propria. È un’invasione pacifica, silenziosa, ma stanno invadendo l’Italia. E se la comprano. Comprano l’economia e la vita quotidiana. E mentre noi ci angustiamo con la nostra xenofobia per l’arabo o l’africano, il Cinese, zitto zitto, ci sbatte fuori casa gentilmente sorridendo. E allora, prima che se lo prendano da soli, vendiamogli tutto e andiamo via. Magari proprio in Cina, a cercar lavoro. Da emigranti quali siamo sempre stati.

Luca Craia

venerdì 3 gennaio 2014

Potremmo vivere di cultura. Ma non ne siamo capaci.



Bisogna essere realisti: non è nelle manifatture il futuro dell’Italia. La nostra competitività cede il passo allo strapotere asiatico e non riusciamo a sopperire con la qualità. L’Italia ha urgente necessità di riconversione e la svolta può e deve venire soltanto da chi ci governa, impostando la virata che ci riporti ad essere un Paese ricco e progredito. Siamo seduti su una miniera d’oro e non ce ne rendiamo conto. L’Italia possiede oltre l’80% del patrimonio culturale mondiale e non lo sfrutta, anzi, lo lascia deperire.
Investire e incentivare lo sfruttamento turistico del nostro immenso patrimonio artistico, storico e ambientale è l’unica strada percorribile per superare la crisi del nostro sistema produttivo. Nessuno può essere concorrenziale sul piano dell’offerta congiunta tra cultura e territorio come l’Italia. Nessun Paese al mondo possiede tanto e nessun Paese al mondo può coniugarlo ad un territorio così articolato tra mare, montagna e collina.
In particolare l’Italia peninsulare e, nella fattispecie, quella centrale, possiede peculiarità uniche al mondo, tanto da poter offrire l’escursione dal mare ai monti nell’arco della stessa giornata, coniugandolo con la visita alle miriadi di piccole ma importanti città d’arte di cui le nostre regioni sono punteggiate.
Per fare in modo, però, che tutto questo diventi remunerativo è necessario investire e programmare, cosa di cui, sembra, la politica non è più capace. Occorre mettere in campo investimenti significativi sottraendoli ad altre aree produttive e questo richiede coraggio politico e capacità decisionale. Inoltre è fondamentale programmare gli interventi e il tipo di politica che si vuole innescare. Uno Stato che lascia crollare i suoi monumenti più importanti, che richiude in casse polverose gran parte delle opere d’arte che possiede, che impedisce anziché incentivare l’intervento privato, uno Stato composto da uomini che non riescono nemmeno a programmare l’ordinaria amministrazione del Paese può essere in grado di scelte politiche così decisive e che possano invertire l’intera mentalità del Paese produttivo?

Luca Craia