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venerdì 18 dicembre 2015

Il Mondo prese i pidocchi



Un giorno il Mondo prese i pidocchi. Ma non se ne accorse. Pensava fossero come i tanti piccoli animaletti che brulicavano sulla sua testa tonda e blu in una sorta di simbiosi mutualistica che, alla fine, lo facevano sentire anche più bello. Invece questi animaletti erano diversi. Dapprima erano pelosi come tutti gli altri, camminavano a quattro zampe come tutti gli altri, si nutrivano dei frutti dei suoi peli e dormivano tra le sue rughe. Poi cominciarono a trasformarsi: si alzarono sulle zampe posteriori, persero i peli, cominciarono a mangiarsi le altre bestiole. Niente di preoccupante, all’inizio: c’erano esseri che si nutrivano di altri esseri già prima della venuta di questa nuova razza, per cui il Mondo non se ne curò.
Poi però cominciarono a venire le incrostazioni. Prima erano delle pellicine, una leggera desquamazione dell’epidermide. Sembrava una piccola irritazione che sarebbe passata da sola e il Mondo non se ne preoccupò. In breve, però, le croste cominciarono a crescere e a crescere. E producevano cattivo odore e umori putrescenti. In più questi animaletti brutti e glabri succhiavano dalla cute liquidi vitali e parti di materiale organico, causando piccole ma dolorose ferite che, piano piano, si estendevano.
Fu quando gli salì la temperatura che il Mondo cominciò a preoccuparsi. Chiamò e il dottore che gli disse che doveva farsi un controllo generale e gli fissò un appuntamento. Intanto la febbre cresceva e con essa il fastidio: prurito, dolore, le incrostazioni diventavano sempre più spesse, l’odore era nauseabondo. Venne il giorno della visita e il dottore fece un attento esame al Mondo. Al termine gli disse di non preoccuparsi: il suo sistema di anticorpi stava funzionando bene. Inoltre questo tipo di parassita era solito giungere al massimo della virulenza e poi estinguersi da solo. Nel giro di pochi secoli sarebbe guarito anche senza medicine.

Luca Craia

venerdì 11 dicembre 2015

Le Storie di Monte Franoso – Tutti al Cimitero!


Capitò, a Monte Franoso, che il custode del Camposanto morì in ancor giovane età. Questo causò un bel po’ di problemi in quanto, per un lungo periodo, non fu assunto nessuno al suo posto e il cimitero diventò una mezza giungla. Così, vista la difficoltà ad assumere un nuovo custode (che costava si e no 30.000 euri all’anno) si pensò di fare una gara di appalto per far fare i lavori cimiteriali a una ditta esterna, con una base d’asta di quasi 60.000 euri all’anno. Nessuno capì bene quale fosse la convenienza ma in molti capirono chi ci guadagnava.
Infatti a concorrere, tra le varie ditte, ce n’era una che apparteneva, anche se non ufficialmente, a un membro del partito di maggioranza relativa in consiglio comunale. Non ufficialmente, dicevo, perché la ditta era intestata al genero, ma in un paesino come Monte Franoso certi particolari ti sfuggono solo se te li vuoi far sfuggire. Così come ad alcuni non sfuggì il fatto che il fratello del suocero del titolare della ditta in questione, nonostante idee politiche manifestatamente opposte a quelle della giunta che comandava a Monte Franoso, da qualche tempo si sperticava di elogi al vicesindaco su Facebook, e addirittura minacciava di prendere a botte chi osava criticarlo.
Fatto sta che si giunse all’apertura delle buste e, sorpresa sorpresa, l’offerta più bassa era di un’altra ditta. Dopo qualche istante di panico si presero immediate contromisure: l’offerta vincente era troppo bassa. Eccesso di ribasso. Bocciata. E così il suocero facente parte del partito di maggioranza si prese il cimitero, costò alla collettività quasi il doppio di quanto si pagava prima ma nessuno ebbe da ridire. Eccetto forse la ditta che fu bocciata che pare fece ricorso ma di cui gli esiti ancora non si sanno.

Luca Craia

mercoledì 16 settembre 2015

Le storie di Monte Franoso – Il pasticciaccio della monnezza



A Monte Franoso era in scadenza l’appalto per la raccolta dell’immondizia. Così in Comune di cominciò a ragionare su come fare il bando in modo che si potessero ottenere maggiori servizi, magari abbassare un po’ i costi e, se ci scappava, accontentare pure qualche amico. La ditta che aveva avuto la gestione dei rifiuti fino ad allora era molto in buoni rapporti e si contava di poter farle vincere di nuovo la gara. Per essere proprio sicuri di non fare stupidaggini (che, agli amministratori di Monte Franoso, riuscivano molto bene) si pensò bene di chiamare un tecnico esterno; tesserato del partito di riferimento della maggioranza, ovviamente. Il tecnico chiese una bella cifra con tanti zeri. Gli risposero va bene. Il tecnico prese il bando che aveva fatto per un altro comune, fece un bel copia incolla, ci piazzò sopra l’elenco delle vie da tenere pulite a Monte Franoso, lo consegnò in Comune e ritirò il suo meritatissimo compenso.
Il problema fu proprio nel copia e incolla. Il tecnico, nel farlo, ebbe talmente tanta fretta che non si curò di correggere il numero di abitanti, lasciando quello del Comune precedente, i cui abitanti erano parecchi meno rispetto a quelli di Monte Franoso. Inoltre, nel copincollare l’elenco delle vie, ne dimenticò un bel po’. Non è cosa da poco perché è su questi parametri che si fanno i conti delle spese. Così si andò al bando. Si presentarono diverse ditte a concorrere, una delle quali era quella che aveva avuto l’appalto fino al giorno prima. Questa sapeva bene quali erano i costi, conosceva il numero esatto degli abitanti e l’elenco delle strade e non si mise per niente a leggere i dettagli del bando: presentò la sua offerta coi dati reali. Altre ditte, invece, che non conoscevano Monte Franoso, si lessero il bando con molta cura prima di fare i conti.
Conseguenza fu che una delle ditte concorrenti fece il calcolo sui parametri contenuti nel bando che, ricordiamocelo, erano sbagliati. Il costo che ne venne fuori fu nettamente inferiore a quello che calcolò la ditta che aveva avuto l’appalto fino a ieri e che aveva fatto i conti con i dati reali. Ma nel bando c’erano i dati sbagliati e l’appalto, almeno sulla carta, lo vinse l’altra ditta. Solo che, coi dati sbagliati, la ditta che vinse non avrebbe potuto fare un buon lavoro perché o non ci stava con le spese o doveva tagliare i servizi per rientrare nei costi. Un pasticcio.
Le buste con le offerte furono aperte a giugno. Fino alla metà di luglio tutti furono impegnatissimi a bestemmiare, eccetto in tecnico che aveva scritto che era troppo occupato a non farsi trovare. Da luglio in poi l’impegno fu quello di fare finta di niente e raccontare fregnacce alla stampa, mentre si cercava di trovare una soluzione. A ottobre ancora nessuno aveva l’appalto per l’immondizia e questa veniva raccolta dalla vecchia ditta a costi stratosferici. Intanto la sporcizia per le strade cresceva.
Come andò a finire? Ve lo dico nella prossima puntata.

Luca Craia

domenica 5 gennaio 2014

I Racconti della Marca Bassa - Paura!



Luca fumava. A scuola era vitatissimo, era vietato anche farsi vedere fumare, era peccato mortualissimo. Ma Luca fumava lo stesso. Fumava prima di entrare, all’uscita, a ricreazione. E se gli prendeva male fumava anche durante le lezioni, in bagno, chiuso in quei loculi col cesso in mezzo che erano stretti e puzzolenti ma garantivano un certo anonimato, sempre che si facesse attenzione ad uscire quando nella zona aperta del gabinetto non ci fosse nessuno.
A ricreazione fumava nel cortile della scuola, grande e alberato, abbastanza ampio da riuscire ad imboscarsi, bruciare una sigaretta e rientrare senza essere beccato da qualche professore. I pini secolari, le aiuole, i muretti offrivano un ottimo riparo sia per il freddo d’inverno che per gli sguardi inquisitori. Così i pochi fumatori del liceo si ritrovavano in cortile, puntuali alle undici ogni mattina, quasi fosse l’appuntamento prefissato per una riunione di chissà quale società segreta. E forse, tutto sommato, di società segreta si trattava, con un suo codice di comportamento e i suoi gesti omologati e omologanti. La fratellanza tra gli adepti si manifestava quando uno di loro rimaneva senza paglie e qualcuno si predisponeva di buon grado a fornirgliene una, ben sapendo che presto ne sarebbe rientrato in possesso, non appena anch’egli sarebbe rimasto col pacchetto vuoto a ricreazione, impossibilitato ad andare a comprarle.
Quella mattina, però, tirava un vento boia, teso e furioso. Scuoteva le cime dei pini che sembravano rabbrividire e, infilandosi tra gli aghi e rami aguzzi, fischiava e ululava come nei film dell’orrore. Quella mattina la società dei fumatori decise tacitamente di saltare la sigaretta della ricreazione, tanto non sarebbe nemmeno stato possibile accenderla con quel vento. Luca però non volle rinunciare ed era certo che col suo zippo sarebbe riuscito a dar fuoco al tabacco. Chiese così a Mauro di fargli compagnia. Mauro non aveva mai fumato in vita sua forse perché figlio di tabaccaio e, in quanto tale, troppo intossicato già soltanto dalla vista delle sigarette per desiderare di fumarne una. Riluttante ma legato a Luca da antica e profonda amicizia nonché da quel rapporto di fedeltà che di solito si allaccia condividendo il banco,  Mauro accettò di accompagnare il nicotomane suo amico a  fumarsi la sua dose di veleno e uscì con lui nella tempesta.
Il vento era davvero impetuoso e, come se non bastasse, era pure gelido. La cosa più inquietante era però il rumore, tanto forte che i due appena si sentivano. Si ripararono dietro il tronco del pino più grosso e, forse, più vecchio, Luca si acquattò facendo un cucchiaio con la mano sinistra attorno all’accendino per ripararlo dall’aria mentre col pollice della destra faceva ruotare il disco abrasivo sulla pietrina che scintillò e incendiò la benzina sullo stoppino. Impossibile impedire ad uno Zippo di accendersi. Luca accese così la sua Chesterfield e cominciò ad aspirare il fumo prima che il vento stesso si fumasse l’intera sigaretta col suo soffio vorace. Intanto Mauro guardava e incassava il collo nel giubbotto cercando invano di riparare la testa, augurandosi che l’amico facesse presto a soddisfare il suo vizio. I capelli di Mauro non reagirono al vento ma quelli di Luca erano tutti per aria, lunghi com’erano.
La sigaretta era quasi a metà quando udirono un rumore fortissimo, più forte del fischio del vento, che proveniva da sopra le loro teste. Uno scricchiolio enorme, il suono del legno che si spacca, un suono prolungato e minaccioso. Alzarono lo sguardo e videro la punta del pino che guardava verso terra anziché verso il cielo e si muoveva in loro direzione lentamente, un po’ perché trattenuta dai rami superstiti, un po’ perché certe situazioni si percepiscono come al rallentatore.
E fu al rallentatore che scapparono da sotto l’albero, almeno questa fu la sensazione perché in realtà correvano veloci come il lampo. Correvano verso le scale che portavano al sicuro, al piano di sopra, dentro la scuola. Correvano a braccia alzate, agitandole al vento come maledicendo qualcuno. Correvano e urlavano ma non si capiva cosa perché le loro voci erano coperte dal rumore del vento mentre la punta del pino, enorme, si andava a schiantare esattamente dove stavano loro qualche secondo prima. Corsero urlando silenziosamente lungo le scale, entrarono nel corridoio centrale della scuola senza rallentare, lo percorsero tutto di corsa svoltando a sinistra verso quello più stretto delle aule. Si infilarono sempre correndo nella loro e si sedettero in velocità ognuno al proprio posto, tremanti e ansimanti e ancora con le braccia alzate. E’ rimasta leggendaria la scena nella scuola, ancora la si narra a distanza di anni. E si ride ricordando la parola che i due gridavano correndo. Urlavano: “Paura! Paura!”.