Faceva un caldo
dell’altro mondo il giorno del funerale di Giancarlo. Solo che, se andate in
paese oggi, a distanza di anni, e chiedete a qualcuno, il primo che passa, di
raccontarvi dei funerali di Giancarlo vi si chiederà: “Giancarlo chi?”. Perché,
vedete, nei paesini di quella regione stretta tra gli Appennini e il mare
Adriatico, avvezza alle perturbazioni dai Balcani e dello Scirocco estivo,
benedetta da un clima mitissimo d’estate e comunque piacevole d’inverno, un
luogo dove si va dalla costa al monte Sibillino in meno di un’ora, i nomi non
dicono nulla: contano i soprannomi. E il nostro Giancarlo (che di giancarli lì
ce n’erano diversi) si chiamava per tutti Pocalisse. Di fatto questo curioso
personaggio, sempre vestito con un grembiule da farmacista o da macellaio, fate
voi, bianco all’origine e chiazzato di ogni colore del creato per le sue
peregrinazioni urbane, era per tutti Pocalisse perché, come nei romanzi
d’appendice o nei peggiori film di fantascienza, dove c’è sempre quella specie
di diogene dei poveri che gira urlando per le strade annunciando la fine del
mondo, girava appunto per i vicoli del paesello avvertendo il prossimo
dell’Apocalisse imminente. E dava anche la data precisa: il 27 luglio del
millenovecentottantare. Si sa: da quelle parti si storpiano i nomi, figuriamoci
i soprannomi. E così Giancarlo divenne per tutti Pocalisse.
Lui lo
annunciava già dall’ottantadue per cui ci si meravigliò non poco quando il 26
luglio del fatidico ottanantatre, altra giornata di un’afa infernale, Pocalisse
fu trovato stecchito e un po’ appuzzato vicino ad un bidone della spazzatura
davanti al palazzaccio, stroncato da un infarto o da una roba simile. Non
avendo parenti prossimi, e quelli poco più che prossimi o remoti che fossero erano
latitanti per vergogna della suddetta parentela, il funerale fu preso in carico
dal Comune. E siccome Pocalisse era da tutti conosciuto e tutto sommato amato
per quel tocco di colore e stramberia che dava ad un borgo altrimenti morto
stecchito, si decise di dargli un funerale coi controfiocchi, in chiesa col
parroco, il Sindaco e pure i carabinieri.
Dato che il
decesso era fatto risalire intorno alle ore dodici del giorno prima, le
ventiquattrore di legge cadevano ad un orario improbabile per un funerale,
soprattutto in base al caldo boia che faceva. Così si stabilirono le funzioni
per le diciassette, che avrebbe almeno rinfrescato un po’. E le si stabilirono
nella chiesa nuova, quella fuori le mura, perché si prevedeva un flusso di
gente al di sopra del normale.
Alle sedici e
trenta del 27 luglio 1983 alla chiesa nuova fuori le mura, sul selciato,
c’erano almeno quaranta gradi. Dentro la chiesa non si sa ma di gradi ce
n’erano tanti. E c’era anche tanta gente, forse troppa per la struttura. Col
caldo bestia che faceva tutte le donne erano venute armate di ventaglio. Gli
uomini presero il libretto dei canti e lo trasformarono tutti in ventaglio
anch’esso. Il parroco cominciò la messa
e già c’era tutto un frullare di mani e mantici più o meno improvvisati. Il
caldo non calmava, anzi, e verso metà predica c’era già qualcuno che dubitava
di arrivare vivo alla benedizione. Don Dino, poi, si applicò non poco per fare
una di quelle omelie che sarebbero pure state toccanti a novembre ma il 27 di
luglio alle diciassette e rotti, con quel caldo, erano solo una specie di
tortura inquisitoria.
Alla Comunione
erano ancora tutti vivi eccetto Pocalisse. I ventagli però frullavano
rumorosamente. I pochi che ebbero la forza di alzarsi per comunicarsi portarono
con sé il ventaglio o il facente funzione e non smisero di sventolarsi nemmeno
mentre il prete gli dava l’ostia. Il rumore dell’aria smossa dalle ventole a
mano si faceva evidente, forte addirittura. Si arrivò alla benedizione che si
sentiva più il suono dell’aria smossa che le parole di don Dino. E qui accadde
l’incredibile: quando il prete prese a spargere l’incenso sulla bara il ritmo
dell’ondeggiare del turibolo prese a coincidere con quello della gran parte dei
ventagli. Dopo pochi istanti, per un incredibile scherzo del destino, tutti i
ventagli andavano allo stesso tempo, avanti e indietro. La chiesa si rinfrescò
di botto.
Ognuno sentiva
l’aria del proprio ventaglio e quella del vicino, di quello davanti e anche di
quello dietro. L’aria cominciò a
turbinare, piano, poi crescendo, un po’ più forte, più forte sempre più forte,
e iniziò a girare e girare e vorticare nella chiesa. Tutti smisero di
sventolarsi ma ormai era l’inerzia a muovere l’aria, unita a qualche strano
fenomeno fisico dovuto al contrasto tra aria fredda e calda che non so
spiegare. Fatto sta che si generò un vento forte, il vento girava su se stesso
con velocità sempre più spinta. Nella chiesa nuova fuori le mura volava tutto:
fogli, piante, indumenti. La gente si buttò a terra terrorizzata. I banchi
ballavano, le candele si spensero, le luci elettriche pure. Il prete cominciò a
salmodiare in latino. Quelli vicini alla porta cercarono di prendere l’uscita
ma le porte si richiusero di schianto. E un vortice fortissimo si sprigionò
dalla platea verso il tetto. E il tetto, con un rumore simile a quello di un
tuono ma più terrificante, in un nuvolo di calcinacci polverosi, volò via. Volò
per quasi un chilometro e si schiantò in mezzo a un campo di girasoli,
rovinandoli tutti. Insieme al tetto volò via la bara che, però, fece poca
strada e si fermò, rovesciata, sul selciato davanti alla chiesa.
Pochi istanti di
armageddon e tutto finì. Il vento si calmò e la gente si rialzò. Il prete
riprese coscienza e cominciò a placare il terrore dei fedeli. I carabinieri
aprirono a spallate la porta. Uscirono tutti come l’acqua esce dallo scarico
del lavandino e fu incredibile che nessuno fini calpestato. Tutti corsero a
casa, sindaco compreso, e rimasero solo il prete e i carabinieri di fronte alla
bara sottosopra del povero Giancarlo. Il paese volò via sulle proprie gambe,
anelante la sicurezza delle proprie mura e l’oblio.
La spiegazione
ufficiale fu che sulla chiesa si era abbattuta una tromba d’aria estiva e aveva
divelto il tetto costruito, si suppose,
non proprio a regola d’arte, tanto che l’ingegnere che aveva firmato il
progetto, invero senza nemmeno leggerlo, fu inquisito ma poi assolto per
insufficienza di prove. Ma chi c’era giura
ancora che la tromba d’aria non era venuta da fuori: era nata dentro la chiesa,
dai ventagli. E un paio dei carabinieri che andarono a raccogliere la bara di
Pocalisse, dopo un paio di bicchieri al bar (presi fuori servizio, ben inteso)
si lasciarono sfuggire di avere sentito, o almeno era parso loro di sentire,
una specie di sghignazzo che sembrava, ribadirono sembrava, provenire da dentro
la cassa.