DI solito si va a questo tipo di
concerto perché è un tributo, un tributo a una divinità pagana che, per un
fortuito caso del destino, si è avvicinata tanto a noi da poterla vedere. Ma ci
si va non aspettandosi grande qualità nella musica e nello spettacolo: la
divinità è sì divina ma anche avanti con gli anni e questo non gioca a favore
della qualità. Ma che importa, il concetto è: quando mi ricapita?
Non è questo il caso del concerto
dei Deep Purple a Servigliano. Li vedi uscire sul palco mostrando evidenti
segni del tempo, segni fisici che fanno pensare che quello che abbiamo appena
detto è quello che ti devi aspettare: divinità acciaccate e uno spettacolo
tendente al patos più che al rock. Ian Gillan è asciutto, ma ha i capelli
corti, un sacco di rughe e si muove come un gatto sciancato. Poi ti ricordi che
Ian Gillan si è sempre mosso come un gatto sciancato e passi oltre, e vedi Ian
Paice che sembra tua nonna che indossa una strana maglietta con la faccia di
Don Bosco (Don Bosco???) e ti preoccupi, anche sapendo che ultimamente non è
stato troppo bene. Roger Glover è più tranquillizzante: tonico, col suo solito
ghigno a metà tra il joker e l’amico sornione. Airey non somiglia a John Lord e
Morse è troppo biondo. E ti dici, vabbè… almeno li ho visti.
Poi parte Highway Star e cambi
subito idea: Gillan non ha più la voce di una volta, d’accordo, ma è ancora una
voce unica, Glover comincia a far correre le dita sulla tastiera del basso e
dici “porcazzozza, quello è Roger Glover!”. Paice parte piano, pare che non
voglia far male alla batteria, poi gli escono delle rullate che dici “dove sta
l’altra batteria?” e capisci: quelli sono i Deep Purple, non i nonni dei Deep
Purple.
Magia della musica che fa sparire
tutte le distanze, anche quelle col passato. Fa sparire anche l’assenza di Jon
Lord perché Don Airey non gli assomiglierà fisicamente ma con l’Hemmond fa
magie, così come Steve Morse mette le dita in posti impensabili e tira fuori
suoni magici, che non saranno quelli di Blackmore, ma non lo fanno rimpiangere. I
quasi 10.000 del Parco della Pace volano via, vanno in Giappone con Strange
Kind Of Woman, planano su foreste incantate con Perfect Stranger, si godono i
pezzi nuovi che, per la maggior parte, non conoscono ma non sono affatto male e
quando a tradimento parte Smoke on The Water senti Servigliano che urla all’unisono
“and fire in the sky!”. Brividi. Brividi che si moltiplicano al bis, quando
parte quella che aspettavamo tutti, Hush. Ed è il visibilio.
Questi sono i Deep Purple, quelli coi quali siamo cresciuti, quelli che cercavamo di imitare la prima volta che abbiamo imbracciato una chitarra elettrica. L'età conta poco: la divinità è viva e fa hard rock.
Due parole sui Toseland: bravo
Giacomino. Un bel metal anni ’80 fa pensare che l’ex centauro sia cresciuto a
pane e Judas Priest. Buona la band, divertente lo spettacolo. La seconda vita
di Toseland sembra promettente quasi quanto la prima. Da tenere d’occhio.
Luca Craia