Sembra ci
sia un disegno preciso dietro la strategia adottata dal Governo (non distinguo
tra quello di Renzi e quello di Gentiloni in quanto credo non ci sia nulla da
distinguere) per gestire il post-terremoto nell’area montana. Può sembrare
approssimazione, inettitudine ma, a guardar bene, forse c’è dell’altro. Le aree
montane sono costose per lo Stato, molto. Un’area montana scarsamente popolata
costa decisamente meno di una popolata densamente. Poi c’è la questione del
Parco, i cui amministratori hanno sempre visto con poca indulgenza la presenza
di insediamenti produttivi all’interno del territorio controllato dall’Ente.
Infine ci sono i costi di ricostruzione, per i quali la matematica è semplice:
meno gente che torna, meno case da ricostruire.
Ecco allora
la strategia: portare la popolazione lontano e ritardare il più possibile ogni
intervento diretto al ritorno della normalità. Le aziende non vengono aiutate a
ripartire, non vengono allestiti siti alternativi per i servizi pubblici come
scuole e ospedali, non si dà modo alla popolazione di rimanere, seppure in
moduli abitativi provvisori.
Tutto questo
tiene lontana dal luogo colpito dal sisma la gran parte della popolazione
attiva, creando un danno enorme al tessuto sociale, danno che, più si va avanti
nel tempo, più diventa insanabile. È difficile pensare a un ritorno alla
situazione precedente al terremoto per tanti piccoli centri, come Castelluccio
o Ussita. Qualche probabilità in più ce l’hanno i Comuni che possiedono aziende
manifatturiere, sempre che queste riescano a riprendere la produzione in loco. Pare
comunque molto probabile che non si tornerà mai più alla situazione originale.
Nel
frattempo assistiamo all’immobilismo quasi totale, o a interventi inutili e
poco razionali. L’uso della forza lavoro pubblica per realizzare strutture che
potrebbero benissimo essere messe in opera da aziende private locali è
illogico. Dare incarico alle imprese locali farebbe ottenere il duplice
vantaggio di liberare le forze pubbliche impiegandole in lavori più consoni,
come l’urgente riapertura delle strade, in gran parte ancora impercorribili, e
di dare spinta all’economia congelata dal terremoto. Sarebbe poi indispensabile
la rapida riapertura dei centri di servizio, come le scuole e gli ospedali. E
poi le unità produttive vanno fatte ripartire subito.
La favola
degli imprenditori mecenati che vanno ad aprire aziende ex novo nelle zone
terremotate è poco credibile. Aprire un’azienda in un periodo di crisi internazionale
non ha senso, a meno che non si trasferisca un’unità produttiva da un luogo all’altro.
Solo che, in questo modo, si tapperebbe una falla creandone una nuova,
occupando mano d’opera in un luogo e disoccupandone altra nel luogo di origine.
Assurdo. Diverso il caso di Diego Della Valle, il cui marchio è in
controtendenza rispetto al mercato. Ma anche qui c’è un ragionamento incongruo:
per aprire un laboratorio calzaturiero con manodopera non del settore serve
tempo. E questo tempo non c’è.
Da qui tutta
la mia preoccupazione per il futuro delle zone colpite dal sisma. La politica
che si sta attuando e la solita politica dei proclami, delle telecamere e dei
riflettori. È vero che non ci sono le mostruose “new town” di Berlusconi ma è
anche vero che, in sostanza, c’è l’immobilismo più completo. E i riflettori,
quelli veri, quelli che tengono accesa l’attenzione dell’opinione pubblica, si
stanno gradualmente spegnendo. Il rischio è che cali presto l’oblio e che i
problemi non vengano più risolti, creando un’enorme zona deserta nel cuore del
centro Italia.
Luca
Craia