L’attentato di Parigi ci dimostra in
maniera lampante che non siamo al sicuro. L’occidente, culturalmente aperto e
predisposto all’accoglienza e alla condivisione, nonostante certe posizioni
ideologicizzate affermino il contrario più per tenere la posizione che per un
ragionamento oggettivo, è a rischio proprio per questa sua apertura mentale,
politica e fisica. I nostri confini sono aperti e non possono essere
altrimenti, perché chiudendoli ammetteremmo che la nostra cultura è sbagliata e
dovremmo ridiscuterla, cosa dalla quale nessuno trarrebbe vantaggio, né i
radicali né i conservatori, ognuno nella difesa delle proprie radici
ideologiche e convenienze politiche.
Il pericolo, però, giunge anche e,
forse, soprattutto dal passato, dalla storia occidentale fatta di conquiste e
colonie, di errori enormi, di massacri, genocidi in nome del profitto e dell’egemonia
geopolitica. Questo passato, e i rimedi tentati per sanare alcune delle sue
conseguenze, hanno portato la nostra cultura a un’apertura esasperata in cui,
in una sorta di risarcimento postumo e imperituro verso chi, in passato, è
stato oppresso dalle politiche occidentali, oggi è diventato parte dell’organismo
sociale occidentale. Questa parte organica, però, mostra evidenti e
pericolosissimi casi di rigetto, un rigetto che rischia di portare lo stesso
organismo sociale alla morte.
L’attentatore degli Champs Elysees,
come afferma la stampa, è un Francese. È un Francese che si chiama Karim. Non
si chiama Francois, Jean, Michel, si chiama Karim. Si chiamerebbe diversamente
se questo cittadino francese fosse integrato, dopo generazioni di cittadinanza.
Ma Karim non è integrato, è una cellula impazzita, un cancro della società
francese, della società occidentale. Fa parte dell’organismo sociale ma lo
vuole uccidere, come fa il cancro. Se ne è alimentato fino a un punto della sua
esistenza, l’organismo non ha mai capito la sua pericolosità e, ora, Karim, il
cancro, uccide. E non ci sono anticorpi.
Quante cellule pronte a mutarsi in cancro ci sono
nella nostra società? Non lo sappiamo, non possiamo saperlo. E non abbiamo né la
cura né la profilassi. Potremmo attuare politiche di chiusura, potremmo
analizzare il nostro tessuto sociale cellula per cellula ed espellere ogni
particella potenzialmente pericolosa prima che questa lo diventi. Ma questa
sarebbe una mutazione genetica, porterebbe a un cambiamento radicale del nostro
essere. Un mutamento culturale, di costumi, che ci condurrebbe a un’esistenza
molto diversa da quella che conosciamo, che è nostra. Porterebbe a una
limitazione alle nostre libertà che sono quelle che ci fanno essere orgogliosi
di essere occidentali, che ci fanno superiori a quelle culture che vogliono
annientare la nostra.
Non ce l’ho una soluzione, lo dico sinceramente e con
un profondo scoramento. Certo, continuando con le politiche di accoglienza
illimitata e senza autoprotezioni, non andiamo certo verso un futuro più
sicuro, non combattiamo certo contro la diffusione di questo cancro. Occorre
ragionare serenamente, per quanto possibile, e togliere dal campo i preconcetti
ideologici, quelli che fanno negare l’esistenza del problema. E occorre
riconoscere che il problema è culturale, è investe la conflittualità innata tra
cultura islamica e cultura occidentale. È complesso, ragionare in questi termini,
perché è vero e innegabile che la pericolosità dell’Islam non è generalizzabile
a tutti i praticanti e che solo una minima parte può davvero rappresentare un
pericolo per la nostra cultura. Ma quella minima parte può essere letale e
abbiamo il dovere, non il diritto, di difenderci.
Bisogna, quindi, innanzitutto fermare la
contaminazione culturale perché è evidente che non siamo pronti, che ci vuole
tempo. Bisogna evitare che queste cellule potenzialmente pericolose possano
moltiplicarsi, e per farlo dobbiamo cominciare a smettere di assimilarne di
nuove. Nel contempo occorre lavorare sull’integrazione, ma bisogna farlo
seriamente, con politiche davvero inclusive, evitando le ghettizzazioni, le
emarginazioni e le alienazioni sociali. Questa è solo parte della soluzione, ovviamente,
che non può essere certo trovata in un ragionamento di poche righe. Ma è
evidente che serva una presa di coscienza forte e un’altrettanto forte volontà
di invertire il processo degenerativo che sta investendo la nostra società. E
per farlo è propedeutico abbandonare le radicalizzazioni delle ideologie.
Luca
Craia