giovedì 22 febbraio 2018

Il vicepresidente della CCIAA di Pesaro: speriamo che nel 2018 si parli meno di sisma



È meravigliosamente esplicativa la dichiarazione di Amerigo Varotti, vicepresidente della Camera di Commercio di Pesaro, rilasciata al TgR Marche di oggi, telegiornale che ogni giorno si rivela miniera di spunti per comprendere il meccanismo dell’asservimento della stampa al potere, specie in riferimento terremoto. Varotti, uomo che campa di incarichi politici da una vita, nel commentare alcune attestazioni rilasciate ad aziende del settore turistico, candidamente afferma che c’è da sperare che per il 2018 si parli meno di sisma, in modo che le aziende del pesarese non abbiano più a subire ripercussioni negative come quelle direttamente coinvolte.
È una dichiarazione che chiarisce più punti: il primo, è che le aziende pesaresi non hanno subito danni dal terremoto, casomai hanno subito danni dovuti a una cattiva informazione che, però, poteva essere corretta con investimenti appositi e con uno sforzo proprio della Camera di Commercio di veicolare l’informazione che a Pesaro il terremoto danni non ne ha fatti; la seconda è che la solidarietà, se mai c’è stata, cosa di cui dubito, se ne è già andata a farsi benedire. Infine un pensiero all’auspicio di Varotti: se smettiamo di parlare di sisma, in poco tempo sarà come se non fosse mai avvenuto. E già siamo sulla strada buona.

Luca Craia

Tra muffa e freddo, si aspetta il burian. Rassegnati.



“Come vi state preparando all’arrivo del burian?” ho chiesto a una mia amica dell’Alto Nera. La risposta è stata agghiacciante più del freddo che verrà: “con la solita rassegnazione dei montanari”. Rassegnazione, è un brutto termine, se ci pensiamo bene. È una resa, il riconoscimento che, per quanto ci si possa battere, l’avversario è più forte e non ci si può fare nulla. Questo, di avversario, è davvero fortissimo: si chiama terremoto, si chiama freddo, si chiama burian, ma si chiama anche e soprattutto Stato. Uno Stato che, in un anno e mezzo, non è riuscito a dare risposte a questa gente che lotta ogni giorno per mantenere viva la propria terra, la propria impresa, la propria esistenza come era stata da loro progettata, per non farla diventare qualcosa di diverso, qualcosa di progettato da altri.
I MAPRE sono un disastro. Muffa, freddo, addirittura sul libretto delle istruzioni dei termoconvettori c’è scritto che potrebbero bloccarsi con le basse temperature, come se i termoconvettori dovessero funzionare in estate. Le unità abitative che sono state date in dotazione alle aziende zootecniche sono ancora peggio delle famigerate SAE. Ma la gente ormai è rassegnata e dopo quasi due inverni passati al gelo di una roulotte, comunque si adatta al meno peggio, tra muffe che riaffiorano dopo due giorni che le hai tolte, umidità, freddo.
Nelle stalle non va meglio: nessuno è più passato a ispezionare e l’arrivo del freddo siberiano potrebbe innescare situazioni estreme, per le quali magari ci sarà qualcuno che correrà a piangere sul latte versato ma che non sta facendo nulla per non versarlo, quel latte. Ma che possono fare i terremotati, oltre che rassegnarsi? C’è da scegliere tra rassegnazione ed esasperazione, e nessuna delle due è una scelta positiva.
Ma tutto questo gli Italiani non lo sanno. I telegiornali trasmettono immagini rassicuranti, il Tg3 Marche continua quotidianamente a trasmettere interviste a ospiti di SAE molto soddisfatti, mentre quelli non soddisfatti stanno perdendo anche la voglia di farsi sentire, tanto chi li ascolta? Intanto, dopo quest’ultimo colpo di coda, anche quest’inverno scorrerà via, portandosi dietro ancora un po’ di voglia di andare avanti, lasciando sul campo, sotto la neve che si scioglierà, rassegnazione e deserto. Ricominceranno i tagli di nastri, le riprese a campo stretto, i sorrisi ammiccanti. E la protesta, ammutolita dalla rassegnazione, sciamerà nella consapevolezza nulla sarà mai come prima, che o ci si accontenta di questa nuova realtà o si va a vivere altrove.
Luca Craia

La violenza della politica come arma di divisione di massa



Si picchiano come si picchiavano negli anni ’60 e ’70, anni che, nella mente di alcuni, sono un qualcosa di mitologico al netto del fatto che hanno innescato gli anni di piombo e il periodo più buio della storia italiana recente. In effetti la violenza che si manifesta in quella che dovrebbe essere dialettica politica e invece diventa puntualmente scontro assomiglia molto a quella degli anni immediatamente precedenti a quelli che hanno macchiato di sangue la nostra democrazia, una somiglianza pericolosa e preoccupante. Ma la violenza non è solo quella concreta e fisica degli scontri tra fascisti e fasciocomunisti, accomunati dalla stessa identica idiozia, ma risiede, anzi, si fonda proprio sul confronto dialettico, un confronto che non avviene più sui temi ma che si fonda sul tentativo di annullamento dell’avversario sul piano personale.
La campagna elettorale che, grazie a Dio, finirà la prossima settimana si è caratterizzata per un vuoto totale di proposte politiche, a meno che non si vogliano classificare come proposte le stupidaggini che stanno cercando di farci bere. Il vuoto lasciato dalla carenza di programmi e di idee è stata colmata con fiumi di accuse reciproche e una violenza, in questo caso solo verbale, che non risparmia nessuna delle parti in campo. Una violenza che, poi, diventa fisica quando assimilata da poveri di spirito che, piuttosto che accendere quella strada cosa di cui potrebbero anche essere dotati, il cervello, preferiscono vedere il sangue dell’avversario. Ma è una violenza che serpeggia ovunque e che anima e pulsa nei social network dove, volenti o nolenti, tutti siamo immersi e dai quali in molti attingiamo spunti di riflessione quando non informazioni.
Chi frequenta Facebook sa di cosa parlo: lo scontro verbale è all’ordine del giorno, alimentato sapientemente da profili fantasma, falsi, abilmente manovrati per generale asti e polemiche, polemiche che poi si ripercuotono nella vita reale. E tutto questo meccanismo è presumibilmente voluto e studiato, in perfetto stile divide et impera. Ma è pericolosissimo: primo perché, come dicevamo, rischiamo di riprecipitare negli anni di piombo aggravati da un imbarbarimento generale della società civile che, negli anni ’70, non esisteva. Secondo perché questo imbarbarimento può radicarsi e generare situazioni antidemocratiche. Insomma, stiamo rischiando il totalitarismo, forse un nuovo tipo di totalitarismo, che finalmente butta la machera e si mostra per quello che è: una mostruosità che non è agganciata ad alcuna ideologia se non quella del profitto e sulle ideologie basa la sua azione disgregatrice della società civile.

Luca Craia

(foto: Il Tempo)