Giovanni Spadolini, quarant'anni fa, disegnava un quadro che oggi può esserci da monito. Per questo ve lo ripropongo.
“Cultura e libertà”. In altri tempi sarebbe sembrato un titolo o retorico, o pleonastico. Nei giorni successivi al rapimento di Moro ha rappresentato, nella sua semplicità, un atto di fede, una testimonianza di serietà: nel gran dilagare della polemica degli intellettuali sui doveri della cultura rispetto alla difesa della Repubblica, contro il terrorismo e la violenza. “Cultura e libertà”: è la formula che l’università di Firenze ha scelto per un convegno di tutte le sue componenti, svoltosi con discrezione e senza riflettori, come testimonianza di solidarietà verso un collega rapito, verso Aldo Moro professore di università prima ancora che uomo di governo. Un convegno, a Palazzo Vecchio, cui hanno aderito tutti gli istituti universitari europei presenti a Firenze, circa una trentina, a cominciare dall’università europea sorta sulla badia fiesolana dopo tante attese, dopo tante delusioni e amarezze, per estendersi alle accademie, alle soprintendenze, agli enti culturali di ogni genere, ai sindacati, agli studenti.
A me è toccato di portare il saluto della facoltà di scienze politiche di Firenze, gemella, e gemella più anziana, di quella dove Moro insegna a Roma, dove stava andando la mattina del rapimento (con le tesi di laurea sottobraccio). A me è toccato di ricordare il Moro professore, devotissimo ai suoi allievi e alle sue lezioni, tenace nella difesa di una “compatibilità” con l’insegnamento che egli sente come parte di se stesso, quasi come necessario conforto alle amarezze della lotta politica; ma il discorso a Firenze non si è fermato al doveroso e discreto omaggio al collega oggi sequestrato dai banditi, ha investito i doveri della cultura di fronte all’estendersi dell’irrazionalismo e della violenza, che tocca le basi stesse di sopravvivenza della Repubblica.
Questa Repubblica deve essere difesa? O possiamo farne getto come di qualcosa di logoro, di marcio, un involucro dal buttar via dopo la corruzione di un trentennio? Erano presenti docenti comunisti, cattolici, azionisti, liberal-democratici: l’università di Firenze rifletteva in quelle persone tutte le componenti di una cultura variegata e differenziata, in una città che ha visto solchi profondi, dilaceramenti antichi. Eppure la risposta è stata unanime; nessuna tentazione alla resa è affiorata. Il dubbio, che tormenta Sciascia, non ha tormentato nessuno di noi. L’equidistanza, cui alcuni intellettuali guardano e che difendono con formule cha avrebbero esasperato Gobetti, non ha trovato in quella riunione di studiosi la minima indulgenza, la minima tolleranza.
La Repubblica deve essere difesa perché si identifica col regime che gli italiani hanno scelto nella lotta per la libertà: un regime che, pur nelle sue contraddizioni o nelle sue involuzioni, mai ha conosciuto momenti di sospensione o di rottura delle supreme garanzie costituzionali, la libertà del voto, la libertà di stampa, la libertà di ricerca e di movimento, la libertà di dissenso e di contestazione. Trent’anni di vita repubblicana – è stato ricordato da Giorgio Amendola – hanno segnato il più grande progresso nell’evoluzione civile, di costumi e di cultura dell’Italia che mai si sia verificato: il paese è cambiato in questi trent’anni più di quanto sia cambiato nei cent’anni precedenti. Nessuna equidistanza fra lo Stato repubblicano e il terrorismo è possibile; il “processo” verso la classe politica, di cui si continua a favoleggiare, è affidato costantemente alla libera espressione della volontà popolare, all’intreccio fra forze sociali e forze politiche, al peso, talvolta determinante, della società civile anche oltre le fluttuazioni del voto.
Eugenio Garin, che proviene da una lunga milizia di sinistra, è andato più in là: si è domandato dov’erano i savi quando saliva la marea dell’intolleranza, quando imperversava il terrorismo delle parole e delle ideologie prima del terrorismo armato, quando minoranze rissose e tracotanti soffocavano con rumorose scomuniche ogni pur pacato dissenso, nelle aule universitarie o in quelle dei massimi istituti di cultura. Dov’erano?
È un quesito legittimo, che meriterebbe di essere approfondito, anche per la definizione di tutte le responsabilità, nella situazione attuale, dove il caos delle coscienze non sembra minore di quello degli istituti. Ma è un quesito che non assolve nessuno, da qualunque parte fosse nei giorni delle prime violenze, dal dovere di assumere oggi una posizione non equivoca sul terrorismo, che non ha nulla a che fare con la contestazione del ’68. I ritardi, le deviazioni, le inadempienze riformatrici (particolarmente gravi quelle nel campo della scuola) non giustificano nessuna condanna sommaria, e tanto meno nessuna esecuzione sommaria. Le strutture garantiste consentono tutto, consentono la riparazione di qualunque errore; l’abbattimento del Palazzo, con la complicità indiretta o meno delle varie bande terroriste, aprirebbe la strada soltanto a un nuovo fascismo.
Nonostante il dilagare della violenza, l’Italia è uno dei paesi di maggiore libertà nel mondo. Il rapporto della fondazione Amnesty, su tutte le forme di oppressione e di coartazione nel mondo, ci riserba due sole pagine, rispetto alle molte dedicate al sud-Africa o alla Persia o all’Argentina (5.000 uomini scomparsi nel nulla, 8.000 uccisi dai battaglioni della morte governativi). Preferiremmo non avere neanche quelle due pagine, dedicate ai testimoni di Geova o a un obiettore di coscienza; ma sappiamo che su quelle esili basi nessuna giustificazione del terrore e della violenza sarebbe mai legittima.
Gli pseudo-giustificazionismi sociologici hanno fatto troppo male per essere invocati ancora. C’è un’Italia della ragione cui gli uomini di cultura possono e debbono restare fedeli, senza rinunciare in nulla alla loro funzione di critici e di giudici del potere. Contropotere e terrorismo non hanno nulla in comune.
Giovanni Spadolini, 22 marzo 1978.
(Da G. Spadolini, “Da Moro a La Malfa, marzo 1978 – marzo 1979. Diario della crisi”, Vallecchi, Firenze 1979, pp. 18-21.)